Per comprendere il whistleblowing
Denunciare è un dovere. O no?
Originalmente uscito su Yanez Magazine.
“Chi fa la spia non è figlio di Maria, non è figlio di Gesù e quando muore va laggiù”
Frase che durante la mia infanzia si diceva tracciando con la mano una X dietro la schiena della persona che era accusata di aver spifferato una malefatta e che, secondo alcuni, era meglio rimanesse all’interno della cerchia ristretta dove era accaduta. I gruppi difendono se stessi; dopotutto il bisogno di appartenenza sembra essere la caratteristica umana che è alla base della costruzione delle società in cui viviamo. Bisogno, però, che ha spesso un costo molto alto. Appartenere a un gruppo richiede un’aderenza elevata a certi modi, a certi comportamenti e, soprattutto, a certi valori; ogni essere umano, però, a sua volta, durante il proprio percorso di vita, costruisce dentro di sé un proprio quadro valoriale. Questo può mettere l’individuo davanti a un bivio difficile: scegliere tra il quadro valoriale del gruppo a cui si appartiene e quello personale, intimo, pagando sempre una posta altissima. In un caso l’allontanamento da se stessi, quel fenomeno per cui lentamente si diventa estranei nel proprio stesso corpo. Nell’altro l’esclusione dal gruppo, che può significare difficoltà ad approvvigionarsi, a sentirsi amato e rispettato, e quindi la morte.
È il dramma davanti al quale si trovò Antigone, l’eroina dell’omonima tragedia greca, quando il re della città in cui viveva vietò la sepoltura del fratello. Il suo quadro valoriale personale, però, le imponeva di seppellirlo. Quale legge ascoltare? È il dramma davanti al quale si trovò Chelsea Manning, una militare statunitense, quando intorno al 2009 si trovò di fronte migliaia di file audio e video che mostravano inequivocabilmente l’uccisione di civili inermi durante la guerra in Iraq per mano dell’esercito statunitense.
“I panni sporchi si lavano in famiglia”, recita un detto nostrano, giustificato spesso dal pericolo che i fatti, estrapolati dal contesto, possano prestarsi a cattive interpretazioni o a vere e proprie manipolazioni. Il contesto, infatti, è spesso fondamentale per la comprensione. Basta provare a vedere le immagini catturate da una telecamera o leggere una chat altrui, per rendersi conto che né le azioni viste né le parole, lette o ascoltate, sono da sole bastevoli a fornire una griglia interpretativa. Nello stesso tempo, però, quando si è immersi in una realtà, è difficile giudicare ciò che sta accadendo con obiettività, poiché le dinamiche di gruppo tendono a rendere gli esseri umani poco critici e alquanto compiacenti nei confronti del gruppo di appartenenza. Impossibile quindi capire guardando dall’esterno, difficile guardando dall’interno. In questo interstizio, fra interno ed esterno, si pone la figura del whistleblower, nome con il quale vengono indicati i membri di un’organizzazione che denunciano pratiche illegittime che avvengono all’interno della stessa. Il whistleblower è colui che obbedisce e disobbedisce nello stesso tempo. Ha accettato un sistema, ma poi è disposto a metterne in mostra il funzionamento sbagliato. Manning, la militare di cui abbiamo parlato poc’anzi, rientra perfettamente in questa definizione. Lavorava come analista nell’esercito quando decise di consegnare a internet migliaia di file che non solo raccontavano gli abusi dell’esercito americano, ma mettevano a repentaglio la narrazione della politica estera statunitense. Quegli stessi file erano condivisi ed erano stati visionati da moltissimi altri soldati. Nessuno di loro ci aveva trovato nulla di sbagliato. C’era davvero qualcosa di illegale in quei file? Nessuno li aveva segnalati per timore, per una sorta di inerzia di gruppo o erano gli occhi di Manning a essere diversi? Gli altri soldati avevano taciuto il problema o non lo avevano visto?
Traditore, infame, venduto, spia, egocentrico in cerca di notorietà, opportunista, folle, sensazionalista, sciocco idealista che vede il male dove non c’è, onesto fra i disonesti, vittima, giustiziere, eroe. Le opinioni sui whistleblower si moltiplicano e diventano spesso assolute, polarizzandosi fino a permettere ai loro detrattori di creare uno strana macchina del ribaltamento; per cui colui che sostiene di aver fatto un atto per salvare la propria comunità, viene, invece, accusato di averla messa in pericolo; colui che afferma di aver prestato fede ai valori della sua nazione, viene accusato di averli traditi. Dirompente, nel maggio del 2013, fu l’ampia documentazione fornita ai giornalisti Glenn Greenwald, Laura Poitras, e Ewen MacAskill da un sistemista di un’agenzia privata che lavorava per l’NSA, l’agenzia per la sicurezza nazionale statunitense. I file dimostravano come l’NSA usasse mezzi illeciti, non contemplati dalla legge americana, sorvegliando le persone attraverso i loro stessi computer e cellulari. Mezzi che stavano compromettendo il diritto alla privacy dei cittadini di diversi paesi del mondo. Edward Snowden, l’informatico autore della rivelazione, dichiarò di agire per tutelare l’identità occidentale, che si basa sullo stato di diritto, ma fu accusato dal Dipartimento della Giustizia degli Stati Uniti di spionaggio. Chi spiava chi? Snowden tutelava o tradiva l’America? Era Snowden il traditore o i metodi dell’NSA tradivano il quadro valoriale occidentale? Nel nome della sicurezza nazionale, può uno stato democratico spiare i suoi cittadini accedendo a loro insaputa a immagini, conversazioni, email, chat private e registrando interi momenti delle loro giornate approfittando dei microfoni e delle camere presenti sui loro dispositivi? Il cittadino ha diritto ad essere “opaco”, ossia non trasparente?
Le tematiche su cui Snowden chiedeva venisse aperta un’ampia riflessione erano sostanziali e la sua denuncia ha comportato il cambiamento e la promulgazione di diverse leggi. Il suo nome, però, divenne pubblico e l’attenzione passò quasi automaticamente dai temi che denunciava, alla sua persona. Inversione al tempo stesso pericolosa e salvifica per ogni whistleblower. Pericolosa perché persero centralità gli illeciti denunciati, per cui i cittadini vennero portati a ragionare meno sul peso di ciò che venne alla luce e di più sulle motivazioni che avevano portato l’essere umano Snowden a denunciare. Salvifica per la persona stessa di Snowden che ebbe modo di incontrare, così, l’empatia di una parte di pubblico e in questo modo tutelare maggiormente se stesso. Le rivelazioni di Snowden chiamavano in causa anche i cittadini europei, mettendo loro una pulce nell’orecchio: le loro conversazioni, la loro vita privata, potevano finire facilmente sotto gli occhi di un agente federale. L’Europa, da un punto di vista legislativo, rispose in maniera puntuale e nel 2018 ratificò il cosiddetto GDPR, per la tutela della privacy dei suoi cittadini. Come hanno, invece, reagito i cittadini stessi? A distanza di sette anni dalle rivelazioni di Snowden, molte persone ricordano poco o nulla sulla vicenda. A eccezione di pochi appassionate di leak (leak è il nome con cui si definiscono le notizie che fuoriescono, ma che erano destinate a restare nascoste), la maggior parte sostiene di non essersene mai interessata. Anche individui solitamente interessati alla politica, confessano di leggere distrattamente le notizie relative ai leak. Le cause di questo disinteresse sono differenti. Alcuni sono spaventati dalla difficoltà a discernerli dalle fake news, altri temono che dietro la fuoriuscita di certe notizie ci possano essere interessi manipolativi di paesi stranieri, altri ancora sono poco curiosi davanti a una realtà che già immaginavano essere tale in cuor loro.
Il whistleblowing, dopotutto, è un tema difficile e scivoloso. Si presenta come un atto di verità, ma la verità è in sé un concetto ambiguo e discutibile, che indubbiamente può allontanare. “Dire la verità”, in questo contesto, andrebbe più inteso come un atteggiamento, un modo di interrogarsi e di saper prestare orecchio al proprio pensiero recondito. Un atto di franchezza. Un modo di essere vigilanti, di saper esprimere dubbi e critiche, entrando anche in scontro con gli altri. Esponendosi anche al ridicolo: gli illeciti denunciati potrebbero essere stati letti male, il denunciante potrebbe aver frainteso o considerato illegale qualcosa che illegale non è. I pericoli e le conseguenze per il whistleblower, inoltre, possono essere molto gravi e avere ripercussioni di carattere legale, finanziario, professionale e psicologico. Spesso è accusato di perseguire fini personali, e finisce per pagarla in prima persona, con l’isolamento e il demansionamento. Talvolta viene condannato con pene molto severe che possono costargli anche il carcere a vita. Presupponendo che il whistleblowing sia un atto puro, non motivato da alcun rancore personale, cosa porta una persona a dire quello che ritiene vero, sapendo di esporsi a conseguenze molto gravi?
Il pentimento non può essere la molla, poiché il whistleblower non è mai protagonista dell’illecito, ma solo testimone. Secondo Michel Foucault, che ha affrontato la paressia all’interno dei seminari presso l’Università di Berkeley nell’autunno del 1983, la spinta motivazionale è data dal sentirsi in dovere di aiutare le altre persone a vivere meglio. Nella sua tesi di dottorato “Whistleblowing game. Un approccio sperimentale alla lotta alla corruzione”, Stefano Calboli, ricercatore dell’Università di Urbino, corrobora l’intuizione di Foucault suggerendo che l’interesse del whistleblower sia il benessere del futuro della propria società, ossia di coloro che verranno. Calboli evidenzia come l’atto di verità possa rompere il gruppo e nuocere nell’immediato ai vari appartenenti allo stesso, ma la speranza del whisteblower è quella di lasciare una società più giusta a coloro che subentreranno.
La storia del whistleblowing è un intreccio di storie di persone, leggi e quadri epistemologici. Whistleblower se ne trovano in ogni paese e in ogni epoca. L’Iran, per esempio, è patria di diversi casi interessanti di whistleblowing politico; segnalatori risiedevano anche alla corte russa di Ivan Il terribile e lo stesso stalinismo fu raccontato all’estero da un whistleblower. Per trovare, però, uno sviluppo sistematico e articolato del fenomeno, bisogna guardare ai paesi anglosassoni, che dispongono, infatti, anche di una legislazione ad hoc più stratificata. Basta pensare che la prima sentenza riguardante un segnalatore di illeciti risale addirittura al 695 era volgare, nel regno del Kent, regione al sud dell’Inghilterra, e sancisce la ricompensa di un whistleblower. Sentenza basata sul Qui Tam, secondo il quale i cittadini che sono coinvolti in un procedimento giudiziario possono ricevere tutti o parte dei proventi recuperati dal governo a seguito dell’accusa. Se il Qui Tam è caduto in disuso in Inghilterra, è ancora vivo e vegeto negli Stati Uniti (il cui orientamento giuridico si basa sul Common Law) nel False Claims Act, legge federale che si occupa delle frodi ai programmi governativi e garantisce protezione a coloro che segnalano irregolarità commesse ai danni dello stato, prevedendo quindi per il whistleblower una percentuale sul denaro totale che il governo recupera grazie alla denuncia. La tutela e l’incoraggiamento del whistleblowing da parte dei paesi anglosassoni nasce dalla consapevolezza che la segnalazione di illeciti da parte di membri interni sia uno strumento indispensabile per la lotta alla corruzione. Permette, infatti, di stroncare sul nascere o in itinere un cattivo comportamento e non solo quando si è già concluso ed è poi impossibile recuperare il maltolto. Gli effetti negativi della corruzione, inoltre, pur essendo sottostimati dall’opinione pubblica, sono di ampia natura. Impoveriscono un paese, rallentandone la crescita economica, incrementando le spese che il governo deve affrontare per combatterlo e allontanando gli investimenti stranieri. La tutela del whistleblowing, letta in questo modo, è la tutela del benessere economico di tutto uno Stato e di tutta una rete sociale ed economica.
A riprova della tesi anglosassone che vuole il whistleblowing un ottimo strumento per riscuotere crediti e mantenere l’economia sana, basta citare il caso dei Panama Papers, documenti consegnati nell’aprile 2016 ai giornalisti investigativi da un impiegato di uno studio legale panamese, Mossack Fonseca, che si occupa della gestione di società off-shore (ossia società che hanno la sede legale in un paese diverso da dove operano, scelto in base alle leggi economiche e alla fiscalità). Dai documenti è emerso che società controllate da banchieri, politici e funzionari, non dichiaravano alle autorità le quantità di soldi gestiti, spesso per eludere il fisco. Ad Aprile 2019 il primo bilancio delle conseguenze di tale rivelazione indicava il bottino recuperato dalle autorità fiscali già ammontare a un miliardo e duecento milioni di dollari. Date le suddette peculiarità della mentalità anglosassone, non stupisce che gli Stati Uniti possano vantare una lunga tradizione di whistleblower, che ha addirittura il suo illustre antesignano nello scienziato e diplomatico Benjamin Franklin.
Nel 1773, quando i territori occupati dagli odierni Stati Uniti erano colonie del Regno Unito, B. Franklin era rappresentante della colonia del Massachusetts a Londra. Le imposte della madrepatria, sempre più alte, erano mal viste dagli abitanti delle colonie, che non esitavano a manifestare per dimostrare il proprio malcontento. Il diplomatico, grazie alla sua posizione, intercettò uno scambio di lettere fra i governatori del suo Stato, in cui si discuteva sulla possibilità di sedare le proteste chiedendo aiuto alla Gran Bretagna, e le rese pubbliche. Proprio quel malcontento, dopo pochi anni, diede inizio alla guerra di indipendenza, grazie alla quale le colonie si affrancarono e sulle cui ceneri nacquero gli Stati Uniti. Durante la stessa guerra d’indipendenza, inoltre, due marinai delle colonie denunciarono il loro comandante per aver sistematicamente torturato i prigionieri britannici. La storia americana, quindi, sin dagli albori è costellata da atti di parresia.
Rivelazioni hanno travolto tutti i campi, dalla politica all’ambito militare alla sanità, dagli enti pubblici alle compagnie private, soprattutto nel settore dell’energia e del nucleare. Le problematiche evidenziate dai whistleblower, spesso, hanno riguardato carenze nella sicurezza degli impianti nucleari, problemi di corruzione e coinvolgimento in attività criminali di organi di polizia o militari, frodi economiche operate da aziende private ai danni dello stato, scarsa trasparenza sugli effetti nefasti di alcuni trattamenti medici o di prodotti come sigarette, nonché attività illegali di intercettazioni e controllo operate da agenzie segrete. La stessa esistenza della NSA, agenzia per la sicurezza nazionale statunitense, è stata rivelata da un whistleblower nel 1971.
Spesso gli atti di whistleblowing sono stati determinanti non solo per aver interrotto immediatamente il perdurare di illeciti, ma anche per lo sviluppo di un nuovo pensiero giuridico che ha portato a legiferare ora su fatti specifici, ora sulla protezione dello stesso whistleblower, ora su questioni puntuali. Nonché per la nascita di enti atti al controllo dell’etica e alla lotta alla corruzione ( Non solo negli Stati Uniti). Nella prima decade degli anni settanta divenne di dominio pubblico una questione sconcertante, particolarmente dolorosa perché riguardava la Sanità Pubblica. In Alabama, un giovane assistente sociale, impiegato del Servizio Sanitario Pubblico, denunciò a mezzo stampa, dopo aver provato per diversi anni l’iter interno, un esperimento iniziato nel 1932 che aveva lo scopo di di osservare l’evoluzione naturale della sifilide non trattata. I ricercatori avevano coinvolto nello studio seicento mezzadri afroamericani poveri, trovandone un numero consistente affetto inconsapevolmente. Nonostante l’incentivo per partecipare allo studio fosse la promessa di assistenza medica gratuita, nessuno dei partecipanti fu mai informato di essere malato, né fu curato per la sifilide, anche se nel frattempo erano stati trovati metodi di cura validi. I medici preferirono continuare il loro esperimento, lasciando che alcune persone sviluppassero sintomi gravi, altre contagiassero le loro mogli, altre ancora incontrassero la morte. Ci furono anche casi di bambini nati con la sifilide congenita. La tenacia del whistleblower non solo portò alla chiusura dell’esperimento, ma anche a un dibattito politico che fu alla base della creazione dell’Ufficio per la Protezione della Ricerca Umana (OHRP). Si aprì anche una riflessione importante sulle condizioni degli afroamericani negli Stati Uniti e sulla discriminazione.
Nello stesso modo un atto di whistleblowing ribaltò l’opinione pubblica sulla liceità della guerra del Vietnam. Nel 1971 un analista politico diede alla stampa dei documenti confidenziali, passati poi alla storia come Pentagon Papers, dai quali si evinceva una realtà molto diversa da quella resa pubblica dallo stato. Riguardava gli obiettivi della guerra e la condotta dell’esercito americano. Solo in quel momento i cittadini appresero che l’obiettivo reale della guerra era geopolitico e poteva riassumersi nella frase “Contenere la Cina” e non in quella, a lungo propagandata, “Aiutare un amico” (ossia il Vietnam del Sud). Lo stato tentò in ogni modo di bloccare la divulgazione del documento, fornendo anche l’occasione per la nascita di un dibattito acceso sulla libertà di stampa. L’ansia di impedire la fuoriuscita di altre informazioni portò il presidente Nixon, di parte repubblicana, anticomunista e sostenitore della guerra, ad autorizzare controlli e indagini capillari, estesi anche al partito democratico. Intercettazioni che comportarono l’impeachment dello stesso Nixon e le sue dimissioni nel 1974 (quello che passò alla storia come Watergate ed ebbe a sua volta il suo whistleblower) .
Un caso peculiare di whistleblowing fu quello che vide protagonista un prigioniero in un carcere di massima sicurezza in California nel 1987. Lavorando come impiegato in un programma per detenuti, denunciò un’impresa di arredamento per il rilascio nell’aria di alcune sostanze chimiche. Poiché la denuncia era stata redatta durante le ore di lavoro, era stato licenziato in quanto inadempiente. Rivoltosi a un giudice amministrativo fu reintegrato e potè beneficiare delle leggi per la protezione dei whistleblower grazie a un cambiamento di mentalità decretato dal giudice stesso, secondo il quale i detenuti potevano essere considerati dipendenti federali. In questo caso l’atto di whistleblowing portò addirittura a una trasformazione significativa nel modo di categorizzare e sancì quindi un modo diverso di pensare e di leggere la realtà.
Anche la storia degli ultimi vent’anni degli Stati Uniti è stata scossa da vari atti di whistleblowing. Soprattutto intorno agli attentati dell’11 settembre 2001 si sono susseguite numerose rivelazioni, alcune delle quali incentrate sulla gestione degli attentati stessi. Per esempio, il non aver garantito condizioni di tutela ai soccorritori esponendoli alle polveri sprigionate che avrebbero nuociuto alla loro salute; altre sulle irregolarità delle guerre condotte contro l’Afganistan e l’Iraq immediatamente dopo (rispettivamente 2001e 2003). Irregolarità che misero in discussione la stessa liceità delle motivazioni che avevano portato alla guerra, come era precedentemente accaduto con l’invasione del Vietnam. Anche il leak del 2013 sui metodi illegali utilizzati dalla NSA, di cui abbiamo parlato all’inizio di questo articolo, può essere annoverato fra le conseguenze degli attentati del 2001. Il 2001, infatti, fu un anno di cesura, in cui cambiarono i protocolli di sicurezza non solo degli Stati Uniti. In nome della sicurezza ogni cittadino fu chiamato ad accettare una nuova tipologia di controlli, a cui gli occidentali non erano abituati. Basti pensare alla necessità della registrazione del proprio documento di identità prima di poter accedere al web all’interno di un internet point o alle ispezioni infinite negli aeroporti. Non stupisce, quindi, che la NSA, nel primo decennio del 2000, fu segnalata per l’utilizzo di metodi illegali nelle sue attività di controllo ben tre volte, nel 2002, nel 2005 e nel 2006.
La rivoluzione digitale comportò un cambiamento significativo nel whistleblowing con il sorgere di due realtà enigmatiche, diverse fra loro, ma correlate: Anonymous e Wikileaks. Realtà che possono essere lette entrambe come strumenti digitali per il whistleblowing. Anonymous è un fenomeno legato all’hackeraggio, ossia all’utilizzo delle competenze informatiche per penetrare in sistemi chiusi. Le azioni del collettivo sono volte sia all’acquisizione e diffusione di informazioni segrete, come smascherare le attività illecite dei governi, delle multinazionali e degli organi di polizia, sia a oscurare o rendere inaccessibili i siti web di realtà ritenute corrotte. (Anonymous, a dire il vero, è una realtà molto complessa. Per un adeguato approfondimento rimando consiglio il testo “Hacker, Hoaxer, Whistleblower, Spy” di Gabriela Coleman).
Wikileaks, invece, è una piattaforma dove possono essere caricati (anonimamente grazie a un sofisticato sistema di crittografia) e letti documenti destinati altrimenti a restare segreti. Insomma è il luogo dove i whistleblower possono caricare le loro segnalazioni assicurandosi l’anonimato. Oltre a caricare e diffondere i leaks, si occupa anche del loro archivio, costituendo un’enorme banca dati. Wikileaks è la realtà che ha sancito definitivamente il legame fra il giornalismo e il whistleblowing. Se analizziamo i casi enumerati poc’anzi, infatti, molti di essi non avrebbero avuto alcuna incidenza se non fossero stati supportati adeguatamente dai giornalisti. Negli ultimi anni, per garantire una eco reale alle notizie che veicola, Wikileaks si è sempre più legata ai media mainstream e si è dimostrata in grado di stringere partnership con le realtà locali, quando necessario per garantire una diffusione capillare delle notizie. Nello stesso tempo, però, è importante dire che Wikileaks prescinde dall’etica del giornalismo classico perché diffonde i documenti senza inquadrarli in un contesto. Su Wikileaks sono stati caricati i cosiddetti Cablegate, rapporti ufficiali, stilati da ambasciatori e funzionari di tutto il mondo e inviati al dipartimento di stato americano, che aprono un triste spaccato sul ruolo geopolitico degli Stati Uniti e mostrano, tra le altre cose, il tentativo del Dipartimento di Stato di controllare i vertici delle Nazioni Unite entrando in possesso di password, documenti, numeri delle carte di credito e dati biometrici dei suoi funzionari. Sempre tramite Wikileaks, nell’estate del 2016, circolarono email hackerate al partito Democratico durante la Convention nazionale. Gli hacker che avevano caricato il materiale, però, questa volta non sembravano essere attivisti esasperati dagli illeciti, ma i servizi di intelligence russi, interessati ad influenzare le elezioni americane che vedevano la democratica Hilllary Clinton sfidare Donald Trump, candidato con i Repubblicani. Fu questa la circostanza che diede inizio al Russiagate, ossia a un’inchiesta sulle ipotetiche ingerenze dei servizi segreti russi sulle elezioni presidenziali americane del 2016, e al sospetto che l’intelligence russa si fosse accordata proprio con il gruppo a cui faceva capo Trump. L’ombra della Russia gettò un’ombra pesante su Wikileaks e sul whistleblowing in generale, che anche in passato non era stato esente da illazioni che lo vedevano strumento al servizio di forze politiche. Ad oggi, pochi sono i fenomeni dibattuti come Wikileaks, vista tuttora da alcuni come un diffusore di democrazia, perché fonte di conoscenze altrimenti destinate a rimanere relegate in ambiti ristretti in quanto coperte dal segreto di stato, militare, bancario o industriale, da altri come uno strumento populista, nemico della democrazia e manipolato politicamente dai nemici dell’Occidente. Nel 2013 Edward Snowden, l’analista responsabile del leak sui metodi illegittimi utilizzati dalla NSA, era scampato alla prigionia trovando rifugio proprio in Russia. Era quindi tutto stato pianificato con l’aiuto dei servizi segreti russi o gli Stati Uniti erano stati abili a farlo finire proprio lì? Snowden era un cittadino indignato o una spia al soldo dei russi?
Internet ha dato senza dubbio un nuovo volto al whistleblowing, fornendo ulteriori strumenti per rintracciare materiale scottante e canali veloci e autonomi per la sua diffusione; ma nello stesso tempo lo ha reso, forse, più facilmente manovrabile da agenti esterni. L’evoluzione del whistleblowing negli ultimi anni ha fatto sì che il fenomeno stia vivendo un momento quanto mai ambiguo. Se, da una parte, vengono incoraggiate le rivelazioni relative alle frodi, agli illeciti che possono avere una ricaduta sulla salute pubblica e sull’economia (non è un caso che diversi paesi europei abbiano irrobustito le proprie norme sulla falsariga del modello anglosassone, inquadrandole nell’ambito legislativo della lotta alla corruzione), dall’altra le fuori uscite di notizie riguardanti la politica sono viste con sospetto sempre maggiore. Non è raro che i leak vengano associati alle fake news e alle Conspiracy Theory, creando un bias pericoloso, che finisce per screditare le prime e dare valore alle seconde. A dire il vero i leak e le Conspiracy Theory (Teorie del complotto) hanno in comune solo l’intenzione programmatica: svelare ciò che è nascosto. I leak, però, consistono in documenti certificati di cui le teorie del complotto sono completamente sprovviste. Le teorie del complotto, d’altra parte, hanno un impianto teorico completamente estraneo ai leak, sono cioè costruzioni teoriche arbitrarie basate su indizi. Possiamo dire che le teorie del complotto, come le fake news, sono “informazioni”che si spacciano per leak, senza fornire alcun fondamento e alcuna prova.
Spetterebbe al giornalismo districare la matassa, incoraggiando sempre più un approccio investigativo, favorendo la diffusione dei leak e avendo un approccio alla politica meno “pettegolo” e più attento alle questioni sostanziali. La diffusione sistematica e contestualizzata dei leak da parte dei giornalisti aiuterà la società a migliorarsi dando dignità alle capacità di discernimento di ogni cittadino e tenendo lontano ogni forma di paternalismo. In questo modo la fiducia tra media mainstream e cittadini sarà rinsaldata, e lo spazio vitale per le fake news sarà esaurito.