Essere Deserto
L’anima consumata del deserto è il dio supremo del mondo
Pubblicato su Yanez Magazine
Semplice. La rappresentazione mentale del deserto nasconde insidie. La semplicità, che spesso troppo velocemente gli si attribuisce, ad uno sguardo attento si rivela essere un inciampo e il deserto si mostra in tutta la sua complessità, come capita a volte con le opere d’arte astratta. La distesa di dune color oro, così radicata nel nostro immaginario, diventa presto solo uno dei molteplici aspetti che il deserto può assumere.
Le metafore connesse alla parola deserto celano le stesse semplificazioni, sottolineandone soprattutto la desolazione, la sterilità e il carattere ostile. Espressioni come “la città deserta” o “il frigo deserto” (spagnolo), “fare il deserto” ne evidenziano l’assenza, il vuoto, la mancanza. “Intorno a me è il deserto” afferma D’Artagnan in una famosa canzone tratta dal film “Tri mušketëra” di Sergey Zigunov. Nella lingua russa, infatti, l’uso metaforico della parola deserto sottolinea proprio il vuoto dato da un’assenza emotiva insostituibile. Uno dei sostantivi utilizzati per dire deserto nella lingua hindi è banjar, l’aggettivo corrispondente banji viene utilizzato per indicare sterilità. L’associazione con l’improduttività e il vuoto la ritroviamo anche nelle lingue neolatine, in espressioni come predicare o parlare nel deserto. In tedesco, invece, la frase jemanden in die wüste schicken, letteralmente mettere qualcuno nel deserto, si utilizza colloquialmente sia per indicare che un licenziamento, sia qualcosa di simile al nostro “mandare al diavolo”. Essere messi nel deserto, quindi, significa venire estromessi, allontanati e il deserto può addirittura sostituire la parola diavolo. Metafore, invece, che designano l’aridità, le utilizzano coloro che i deserti li conoscono bene, come gli iraniani: “ho il deserto in bocca” si dice per indicare la bocca secca.
Aridità, vuoto, desolazione, allontanamento. Concetti che ritroviamo spesso anche nelle etimologie. L’etimologia di deserto nelle lingue neolatine è associata a deserere, abbandonare, che ritroviamo con lo stesso significato nell’inglese contemporaneo desert. цөл (tsöl) lo chiamano i mongoli, parola che deriva dal proto turcočöl che significa, ancora una volta, sterile; пустыня (pustynia) i russi, da pusto, vuoto; 沙漠 (shāmò) i cinesi, con poca acqua. Il termine berbero tanezrouft, invece, alcuni dizionari etimologici dicono significhi “che è là fuori”, sottolineandone, quindi, la caratteristica di posto altro. Qualcosa in qualche modo ricollegabile capita con la parola ebraica מִדְבָּר, (midbàr), all’origine utilizzata per designare il pascolo, derivante dalla radice ugaritica mdb, che significa “regione selvaggia”. Alcuni dizionari, però, riportano “ciò che sta al di là”.
Rosso è un termine che ritroviamo spesso, inaspettatamente, collegato al deserto. Per esempio shr, la radice da cui deriva la parola صحراءI (sahara) , utilizzata dagli arabi per deserto, vuol dire “scottare” “rendere rosso con il sole”. Il nome del deserto Kyzylkum, tra Kazakistan, Turkmenistan e Uzbekistan, significa proprio sabbia rossa, e “the red centre” viene chiamato l’Outback, l’immenso cuore desertico australiano. Da una parte quindi disabitato, infruttuoso, abbandonato, secco. Dall’altra rosso, diverso dall’ordinario. A ben guardare quindi il deserto rappresenta una sorta di carnevale spaziale, un luogo in cui le caratteristiche comuni si presentano rovesciate. Rifugio di asceti e di coloro che prendono distanza dalla vita terrena, ma anche patria di Las Vegas, la città delle stravaganze, del gioco d’azzardo e dei matrimoni fittizi.
Forte aridità, pochissime precipitazioni, alta pressione atmosferica, suolo ricco di giacimenti, presenza di piante e animali altamente adattivi: queste sono le caratteristiche cui un territorio solitamente risponde quando viene definito “deserto”. Caratteristiche che danno vita a paesaggi estremamente differenti fra loro. Il deserto è un sistema complesso, ricco di diversità e sfumature; potremmo rappresentarlo come un continuum in cui si posizionano una grande quantità di territori diversi e i cui spazi alle estremità sono occupati da zone semi-desertiche e sub-umide, che pur presentando all’occhio proprietà del tutto similari, non assurgono però allo status di deserto. Il deserto quindi è un concetto scalare, che si trova spesso al centro di contrasti campanilisti e di malumori di abitanti che soffrono la mancata classificazione come deserto del proprio territorio.
Deserto è il Sahara, ma deserto è anche l’Antartide. Una distesa di rocce, ghiaia, ghiaccio, quindi, come quella che si ritrova nei biomi artici, viene considerata deserto. Non è la carenza di popolazione che la rende tale, ma l’indice di aridità e la penuria di precipitazioni. La secchezza quindi è la discriminante fondamentale, e proprio grazie a questa caratteristica le zone desertiche hanno spesso funzionato da vero e proprio conservante naturale. Basta pensare ai numerosi fossili, ai resti di dinosauri, ai corpi mummificati, e addirittura a resti cartacei di alcuni antichi manoscritti del Qumran, ritrovati pressoché intatti dalle comunità nomadi locali nei pressi del deserto di Giuda, tra Israele e Cisgiordania.
Le differenti tipologie di deserto possono essere classificate in base alle piogge, alle temperature, alle aree geografiche, alle cause che hanno portato alla sua formazione e anche in base a una combinazione di questi fattori. Eyal Weizman, però, architetto e attivista, ci mette in guardia da queste definizioni. Essendo, a suo avviso, la meteorologia una scienza coloniale e imperialista, tende a basarsi su categorie occidentali non sempre oggettive, ma spesso asservite a logiche politiche. E’ difficile, a suo parere, stabilire quale sia la soglia del deserto, ma anche distinguere uno spazio coltivato, da uno spazio incolto. Soprattutto se nella mente di chi categorizza la coltivazione coincide con la cerealicoltura. Una cultura basata sui cereali pensa che nel deserto nulla possa esistere e tara ogni sistema su se stessa. Non è un caso che una zona desertica, per definizione, riceve fino a un massimo di duecento millimetri di pioggia annui, proprio il limite al di sotto del quale non è possibile la coltivazione dei cereali. Un deserto, però, non è un posto senza vegetazione e animali. Sicuramente, però, è un luogo dove le piante e gli animali hanno caratteristiche peculiari. Piante dalle lunghe radici, in grado di intercettare e di nutrirsi anche di una piccola goccia di umidità. Dotate spesso della capacità di accumulare riserve, al pari di un cammello o di un dromedario. Animali come il gatto dei cactus, una lince in grado di trovare riparo sulla cime di altissimi cactus qualora braccata dai predatori. Si alternano deserti estremamente aridi, che ricevono in un anno un quantitativo d’acqua pari a zero, ad altri che sono turbati ogni anno da acquazzoni, resi violenti dalla vegetazione poco fitta, durante i quali cade in poche ore un quantitativo d’ acqua enorme. Le tempeste vanno a riempire strettoie solitamente secche che si trasformano in veri e propri torrenti temporanei.
La pioggia, però, non è l’unica opportunità di approvvigionamento d’acqua; a volte sotto forma di liquame di fango ricevono lo scolo di deflusso di piccoli canali, dove confluiscono piogge e nevi degli altopiani vicini. Alcuni deserti, inoltre, sono attraversati da fiumi che nascono però in territori umidi, come il Nilo per esempio. Le diverse comunità che abitano il deserto hanno escogitato, nel corso dei millenni, moltissimi modi differenti di gestire le riserve e di procurarsi l’acqua. Dal sistema persiano dei qanat, una rete di cunicoli sotterranea, all’innalzamento di reti atte a imprigionare l’umidità e trasformarla in gocce. I deserti possono trovarsi alle temperature più disparate. Oltre ai deserti ghiacciati e torridi, altri si estendono in regioni in cui le temperature sono fredde d’inverno e calde d’estate, spesso caratterizzati da una forte escursione termica. Sono distribuiti in tutto il globo, soprattutto in prossimità dei tropici: intorno al tropico del Cancro vanno a formare quella che, vista dall’alto, sembra una vera e propria cintura arida. La morfologia del territorio può variare completamente anche all’interno di uno stesso deserto. Possiamo trovare montagne e depressioni. Nello stesso modo cambia la superficie: ghiaccio, ghiaia, roccia, sassi, sabbia, sale. Superfici che si presentano con colori e forme differenti, a seconda dei minerali che le compongono e a seconda dell’azione del vento.
Il vero demiurgo del deserto è proprio il vento. L’interazione fra vento e superficie arida gioca un’azione fondamentale. Il vento, infatti, erode, sfalda, escava, trasporta e deposita particelle dando vita a quelle che sono le formazioni più appariscenti. Dalle diverse tipologie di dune, ai laghi detti, appunto, eolici; dalle distese di rocce, alle spettacolari e gigantesche sculture di terra alte decine di metri dette Yardang. Formazioni che a un occhio esperto raccontano molto sulla tipologia di clima e sui fenomeni eolici del territorio, da dove spira il vento per esempio, le sue inversioni e la sua direzione. I deserti non sono solo molto differenti fra loro, ma cambiano aspetto all’interno di loro stessi. L’Atacama, per esempio, fra Perù e Cile, anche detto il posto più arido del mondo, alterna zone rocciose, a sabbia e a saline bianche. Ciò che rende il paesaggio spettacolare non è il materiale da cui è composto il terreno, ma il pattern che si viene a creare e che si ripete sempre uguale su una superficie vastissima. Impressionanti sono le dune, ma impressionanti sono anche i laghi di sale con le loro superfici bianchissime che viste dallo spazio, a detta di Neil Armstrong, sembrano quasi specchi. Impressionanti anche le distese di ghiaccio nei circoli polari. Secondo lo storico dell’arte Banham, ciò che davvero rende unico il paesaggio desertico e mette poi nell’animo dei viaggiatori il cosiddetto “mal di deserto” e quindi l’impossibilità di restarci lontano per troppo tempo, è la luce, con la diffrazione di colori che crea. Il paesaggio appare creato dalla luce stessa e, a seconda delle ore del giorno e della stagione, cambia completamente aspetto. La presenza di strati d’aria a diversi livelli di pressione e temperature durante le ore diurne dà vita ai cosiddetti miraggi, ossia fenomeni ottici che creano immagini tremule. Altro non sono che proiezioni di oggetti lontani in posizioni diverse nello spazio.
La maggior parte dei deserti si è creata per cause legate ai cambiamenti dei movimenti atmosferici. E’ il caso dell’estesissimo deserto che si trova su Marte. Un deserto rosso e in parte sabbioso, caratterizzato dalla presenza di dune e degli Yardang. Al posto di quel deserto, però, pare ci fossero stati precedentemente laghi, vulcani, oceani e quindi probabilmente vita, se è vero che l’acqua stabile è il requisito essenziale per l’abitabilità. La parola vita, spesso, provoca un bias cognitivo e la si associa automaticamente alla presenza umana. In questo caso, invece, parlando di vita, si intende quella microbica. Per comprendere il tipo di vita che si può trovare su Marte e, soprattutto, capire dove e come cercarla, alcuni gruppi di ricerca indagano la presenza microbica in situazioni estreme, in habitat dove i microbi sono costretti a comportarsi in maniera differente. In alcuni deserti, per esempio, è stata scoperta in strati profondi del suolo una presenza biologica in grado di andare in letargo per anni in assenza d’acqua, ma pronta a risvegliarsi in presenza di umidità. Qualcosa di analogo si potrebbe trovare su Marte. La situazione di Marte probabilmente precipitò a causa dei venti solari che, spazzando via la magnetosfera, tolsero la protezione necessaria ai raggi UV. In questo modo l’acqua evaporò o scappò nel sottosuolo e il pianeta divenne una distesa di sabbia e roccia. Il secco inghiottì l’umido.
La circolazione atmosferica ha, spesso, un ruolo determinante nella formazione dei deserti. Gli spostamenti d’aria, per esempio, possono muovere velocemente le nuvole non permettendo che sostino su determinati territori e provocando come conseguenza la siccità: è il caso del deserto del Sahara. Oppure catene di montagne particolarmente elevate bloccano le nuvole e catalizzano su loro stesse la scarica di piogge. Le nuvole, quando raggiungono il territorio limitrofo, sono a corto di umidità e lasciano a secco interi territori. Questa è la genesi per esempio del deserto del Gobi in Mongolia o del deserto del Mojave in California, negli Stati Uniti. Un territorio desertico non sempre è nato e non sempre è destinato a rimanere tale. Diversi studiosi ipotizzano che il Sahara alterni fasi (lunghe ventimila anni) desertiche a fasi da foresta pluviale. Al posto del Sahara sembra, quindi, ci sia stato un territorio ricco di laghi e fiumi, che ora si sono rifugiati nelle profondità del sottosuolo. A pensarci bene, il deserto arabico occupa il posto chiamato anticamente mezzaluna fertile, sicuramente non un territorio arido. L’Antartide, nello stesso modo, si ritiene che tre milioni di anni fa fosse occupato da una foresta. Alcune foreste pluviali, di contro, potrebbero essere state paleodeserti a considerare dalle analisi geologiche dei suoli.
Il territorio terrestre quindi è in costante, se pur lenta, trasformazione. Non è chiaro se lo stesso meccanismo di reversibilità possa riguardare anche il fenomeno della desertificazione, fenomeno preoccupante che consiste nella trasformazione di intere aree semi aride o sub umide in aree estremamente secche. Gli scienziati demarcano una linea netta fra il deserto e le zone desertificate, descrivendo il primo come un sistema ecologico in equilibrio e le seconde come il risultato della distruzione di un ecosistema. I fattori che determinerebbero questa condizione sono svariati, dai cambiamenti climatici, all’erosività delle piogge, gli incendi, un uso non sostenibile delle acque, delle pratiche agricole, zootecniche e di pascolo, la contaminazione del suolo, l’abbandono di zone montane, l’eccessiva urbanizzazione e le numerose attività estrattive. Le aree più colpite sono quelle limitrofe a zone già desertiche, che hanno un ecosistema fragile e, nonostante ciò, vengono iper-sfruttate. La desertificazione è un problema rilevante, che ha conseguenze geopolitiche determinanti essendo una delle cause principali delle migrazioni.
Sembra infatti esserci un legame importante fra migrazioni e deserto. Il deserto affrontarono gli Ebrei, lasciando l’Egitto secondo il racconto biblico. Proprio alle soglie del deserto, ai nostri giorni, i coyotes (i trafficanti di esseri umani) lasciano le persone che dall’America meridionale vogliono tentare di entrare negli Stati Uniti, senza documentazione adeguata. Così come è il deserto uno dei passaggi della rotta che porta in Europa illegalmente dall’Africa. Il deserto del Sahara, soprattutto nel suo tratto nigerino, quella porzione di sabbia che prende il nome di Ténéré e che, dai racconti delle persone che ogni giorno lo attraversano in minivan o in camion sovraccarichi, si è trasformato in un cimitero. Cimitero dove si collocano i morti a causa delle botte dei trafficanti e della polizia di frontiera in cerca di denaro; i cadaveri di persone che hanno perso la vita per un infarto dovuto alle condizioni estreme o per gli stenti (non solo migranti, ma anche sportivi dispersi); le vittime delle cosiddette“deportazioni nel deserto”. Una misura illegale adottata da alcuni gruppi di potere per liberarsi di chi è scomodo. Di deportazioni nel deserto parla già Ungaretti nel 1961, all’epoca ai danni di avversari politici del governo egiziano.
In qualche modo il deserto ha sempre rappresentato un luogo dove gli imperi prima e gli stati nazionali poi hanno faticato ad avere giurisdizione, una sorta di terra di nessuno. Proprio per questo diverse istanze, ora di stampo coloniale, ora animate dalla fede nel progresso, ora mosse da entrambi gli elementi, hanno teso a vedere il deserto o come un posto selvaggio da addomesticare o come uno spazio vuoto di cui poter disporre. Le testimonianze archeologiche, in realtà, ci dicono che i deserti sin dall’antichità sono stati sempre abitati e coltivati, spesso anche nelle loro parti più aride. Una coltivazione e un modo di abitare, però, lontani da quelli che siamo abituati a vedere e a riconoscere. E forse proprio questo fraintendimento, dettato da ignoranza o da interessi, ha portato spesso gli Stati a intraprendere politiche criminali nei confronti di quelle comunità che in questi territori abitano da sempre e che hanno lentamente imparato a conoscere il territorio e a gestirlo. Quelle stesse comunità che spesso si sono ritrovate estromesse e confinate. Da ricordare per esempio come la “Riconquista della Cirenaica”, intrapresa dal governo italiano nel 1910 e proseguita da Mussolini nel 1922, aveva tra i suoi obiettivi quello di spostare a sud l’inizio del deserto, attraverso gli impianti di irrigazione artificiale e la piantagione di foreste. Le comunità che in questi territori vivevano furono sfollate o rinchiuse secondo una logica concentrazionaria. Sorte analoga è toccata alle comunità autoctone australiane, come alle comunità native nell’ America Settentrionale.
Quello che saltava agli occhi dei più, però, era l’impresa incredibile di “mangiarsi il deserto”, secondo la metafora cognitiva “più coltivato è più bello”. Politiche lungi dall’essere confinate al secolo scorso. Tuttora il Marocco dispone di un muro presidiato e attorniato da campi minati lungo duemila e settecento chilometri, costruito a partire dal 1982 proprio sul fronte occidentale. Un muro, insomma, nel deserto, che ha permesso al Marocco di annettere territori ricchi di fosfati, ma abitati precedentemente dalla comunità Saharawi. Il muro è stato solo uno dei capitoli di un lungo conflitto tra un fronte armato organizzato dalla comunità locale e la volontà di espansione del governo marocchino. Il costo per la popolazione Saharawi è altissimo, famiglie intere si trovano tuttora disgregate e quelle che non hanno lasciato il Sahara marocchino vivono tuttora in campi profughi ormai diventati insediamenti permanenti. Una sorta analoga tocca ai gruppi che abitano il deserto del Negev, al sud di Israele. Grazie a una legge ereditata dagli ottomani, che vuole che la terra non coltivata sia automaticamente dello stato, il territorio desertico è stato quasi tutto prelevato ai danni delle comunità del posto, che soffrono continue demolizioni dei propri insediamenti e sfollamenti.
Anche qui il problema sembra essere l’eccessiva semplificazione di categorie e l’incapacità di decifrare ciò che non ci rassomiglia: le comunità che solitamente abitano il deserto vengono percepite come nomadi e disorganizzate e in quanto tali, per il senso comune, senza alcun diritto sul territorio che abitano. La maggior parte delle comunità, invece, sono seminomadi e il nomadismo comunque non comporta l’assenza di legame e di cura per la terra che si attraversa. Le rotte sono specifiche e spesso prevedono ritorni ciclici. E’ una questione annosa, inoltre, comprendere se sia giusto che un gruppo non abbia diritto a determinare ciò che accade nel territorio dove vive, se non organizzato secondo certi criteri. Spesso criteri che non gli appartengono, ma propri di coloro che vogliono espandersi su quel territorio e che solitamente dispongono di un’altra forza.
“Tribù dai tratti fieri”. Non è infrequente una descrizione mitica e infarcita di tratti esotizzanti dei vari gruppi che abitano il deserto. Spesso in prossimità delle soglie dei deserti alcune zone si sono trasformate in veri e propri parchi giochi, dove i nativi si vestono come i loro predecessori per essere immortalati negli scatti dei turisti; i cammelli, i lama o altri animali “tipici” sono una sorta di giro di giostra. Nello stesso tempo sono sempre di più le associazioni presenti sul territorio, fondate soprattutto dagli appartenenti a queste comunità, a tutela propria e della propria cultura, e non è raro trovare esposizioni museali dedicate ai gruppi di nativi, soprattutto nelle oasi. Le oasi sono sempre un artefatto umano, e altro non sono che luoghi dove l’acqua è stata resa disponibile. Oasi sono i villaggi nati intorno alle stazioni durante la costruzione della rete ferroviaria atta ad attraversare il deserto americano; oasi sono i villaggi abitati e a volte anche abbandonati, nati intorno ai pozzi e alle miniere per l’estrazione di materie prime. Le terre aride, infatti, sono ricche di depositi minerali. Le acque sotterranee permettono il loro accumularsi vicino alle falde acquifere. Borace, sodio-nitrato, rame, ferro, zinco, piombo, cromite, oro, argento, uranio, litio, calcio e soprattutto petrolio. Oasi o ex oasi sono in qualche modo anche le megalopoli negli Emirati Arabi Uniti e in California. Nel deserto del Wadi Rum, in Giordania, sono state costruite lussuosissime strutture circolari dalle pareti di vetro, che permettono al turista di sentirsi completamente avvolto dal cielo stellato del deserto. Possiamo considerare anche queste oasi? Oasi sono gli accampamenti militari, numerosissimi. Se si digita deserto su Instagram prima o poi compaiono le immagini di militari in uniforme impegnati in esercitazioni o a tutela di qualche confine. Accampamenti militari, paramilitari e anche terroristici. Sembra che Al Qaida abbia nel deserto del Sahara dei centri di addestramento e lo Stato Islamico abbia spostato le sue mira proprio sul Sahel. Anche numerosi centri di ricerca hanno posto le loro basi nei deserti, basta pensare all’Antartide abitato quasi esclusivamente da ricercatori, agli spazi utilizzati per esperimenti atomici e per lanci missilistici, ai numerosi osservatori astronomici, con i loro telescopi giganteschi. Il deserto è diventato anche il luogo ideale per alcune manifestazioni sportive, dalle maratone, ai dune buggy, alle corse in moto, ai rally. Nello stesso tempo non sono pochi i gruppi religiosi, le comunità hippy, gli artisti di land art, i gruppi di lavoro che hanno scelto il deserto come meta. Attratti sia dal suo rappresentare l’altrove, un luogo dove ancora tutto è possibile, sia dalla sua scarsa densità. Basta ricordare il progetto “Arcosanti” di Paolo Soleri, la costruzione di una realtà ideale, sostenibile, atta a creare una città che sviluppandosi in altezza non avrebbe invaso gli spazi naturali.
A causa di questa nutrita schiera di frequentatori di deserti c’è chi pensa che il deserto sia sotto assedio e lamenta l’utilizzo massivo di questo spazio per questi usi così disparati. Istanze che sono state tacciate di essere permeate da spirito conservatore e romantico. Un romanticismo che tende a voler cristallizzare il deserto rendendolo il più vicino possibile a un immaginario tanto predefinito quanto irrealistico. A ben guardare, però, questi gruppi, spesso, sono stati animati da valori ambientalisti e la desertificazione sembra, appunto, essere causata anche dall’iper-sfruttamento delle zone semiaride e delle oasi, dove spesso i frequentatori dei deserti alloggiano.
Anche i djinn (spiriti) abitano il deserto, orchi e fate, a detta di leggende naturalmente. Il suono delle dune, il suono peculiare del deserto sabbioso, sembra dovuto proprio ai djinn. Queste presenze, secondo la tradizione, non portano a niente di buono.
La complessità del deserto e il suo sapersi trasformare in forme diverse è visibile già nelle descrizioni che si ritrovano nella poesia beduina pre islamica: “il deserto con la sua grandiosa solitudine, infinitamente immobile e silenzioso, piatto come una stoffa ben lavorata, devastato da temporali improvvisi, folgorato da lampi come lanterne di monaci, percorso da rivoli rapidi come lacrime, bollente, abbagliante e poi gelido nelle notti, rigato, tatuato, scritto dalle tracce degli accampamenti abbandonati, abitato da iene, sciacalli, gazzelle lievi e occhieggianti”. Nei testi sacri e nell’aneddotica delle religioni che ruotano intorno al “Libro” (la bibbia) il deserto occupa uno spazio ampio. Il deserto simbolico spesso è una minaccia: [“Ti trasformerò in un deserto”]; è una punizione [“Il Signore, acceso di sdegno contro Israele, li fece andar vagando per il deserto quarant’anni, sino a che ebbe fine tutta quella generazione che fece ciò che spiace agli occhi del Signore”]; ma è anche una possibilità di redenzione: [”Perciò, ecco, io la sedurrò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore. Le renderò le sue vigne e trasformerò la valle di Acor in porta di speranza. Là mi risponderà come nei giorni della sua giovinezza, come quando uscì dal paese d’Egitto. E avverrà, in quel giorno – oracolo del Signore – mi chiamerai: “Marito mio”, e non mi chiamerai più: “Baal, mio padrone”]. Il deserto quindi è un’occasione di riscatto, dove il silenzio disvela la realtà e ci si ritrova. “Dio ha creato le terre con i laghi e i fiumi perché l’uomo possa viverci. E il deserto affinché possa ritrovare la sua anima”, recita un detto Kel Tamashek.
Il Tasawwuf, la mistica islamica, segue lo stesso filone. Il deserto diventa una tappa dell’anima nella strada di conoscenza. E il deserto, dai mille volti e dai continui e impercettibili cambiamenti, diviene il posto dove è possibile la trasformazione. Se “solo dalle giornate di sole nasce il deserto”, come recita un detto georgiano, proprio “L’anima consumata del deserto è il dio supremo del mondo” perché “lo spirito languisce nella sicurezza e vive nella privazione” [Camus].
Schede
Deserto di Sonora
Tra il Messico e gli Stati Uniti, con la sua vegetazione e fauna complessa, si estende il deserto di Sonora. Orsi, linci, puma, scoiattoli, pecari, uccelli e una vasta distesa di cactus alti come alberi, che spesso fungono da nidi per gli uccelli e da rifugio per linci inseguite dai predatori. La leggenda vuole che i cactus del deserto siano rispettati anche dai cartelli messicani della droga. Sembra, addirittura, che i trafficanti non esitino a segnalare il furto di un saguaro, nonostante questo significhi denunciare la loro stessa presenza. Alle soglie di Sonora sorge una struttura bianca di vetro e ferro, con diverse cupole e piramidi, all’interno della quale si è tentato di ricostruire negli anni novanta l’intero ecosistema terrestre, dalla barriera corallina, all’oceano, dalla foresta pluviale, al deserto. Il nome dell’esperimento Biosphere 2. Il fine la costruzione di un mondo libero dall’inquinamento e dalle altre disgrazie della terra, magari da replicare su un altro pianeta. Il piano di ricerca prevedeva che in questo ecosistema chiuso avrebbero vissuto otto ricercatori per due anni, durante i quali tutto il cibo e il necessario doveva essere prodotto internamente. Lo sforzo ingegneristico fu enorme. L’esperimento durò dal 1991 al 1993, durante il quale i ricercatori osservavano tutti i cambiamenti che avvenivano intono a loro. Il deserto, ad esempio, si trasformò da un’area dominata da cactus in una popolata da arbusti e alberi. Gli incidenti, però, furono due e invalidarono la missione agli occhi della comunità scientifica. Il primo portò un membro del gruppo ad andare in ospedale, rientrando si disse che introdusse elementi esterni non dichiarati; il secondo comportò l’immissione nell’ecosistema artificiale di ossigeno esterno. I membri dell’equipaggio, inoltre, in poco tempo si divisero in due fazioni antagoniste, che lottavano per la leadership. La ricaduta dei risultati raccolti da Biosphere 2 sul mondo scientifico è dubbia, non vana l’esperienza e ancora in piedi l’imponente struttura.
Deserto del Karakum
Il Turkmenistan è un deserto vasto, con uno sbocco sul mare, montagne e canyon colorati. L’enorme parte desertica prende il nome di Karakum, “sabbie nere” sembra significhi. “Colore su colore di fiori che sbocciano sulle verdi pianure, il deserto turkmeno è annegato nel basilico”, così ce lo racconta Magtymguly Pyragy, il poeta turkmeno nazionalista, indicato come il leader spirituale dalle ultime due classi politiche turkmene. In questa enorme distesa arida, infatti, non è difficile trovare tratti ricoperti da artemisia, arbusti o foreste di saxaul bianco, un piccolo albero dal tronco grigiastro e dalle foglie talmente piccole che a un colpo d’occhio sembrano assenti. Il Sacro Ruhnama, il testo pubblicato nei primi anni del duemila a nome del presidente turkmeno e il cui studio è stato per anni obbligatorio nelle scuole, parla del Karakum come del tesoro del paese, il posto in cui non solo è possibile rinvenire le proprie origini, ma che fornisce da sempre nutrimento e abbondanza grazie ai pascoli e alle immense risorse sotterranee. Il Turkmenistan è il suo deserto. Le sue sabbie contengono quaranta minerali diversi e nel sottosuolo si annidano giacimenti importanti di gas e di petrolio. Proprio nei pressi di un giacimento di gas, si trova un largo cratere che brucia da circa cinquant’anni, detto dai Turkmeni la porta dell’inferno e interpretato da alcuni come un evento soprannaturale. Il fenomeno, in realtà, è stato generato da un incidente. Nel 1971, in questa zona, i sovietici intrapresero trivellazioni alla ricerca di petrolio. Il terreno sotto la piattaforma, però, crollò, inghiottendo la piattaforma stessa e determinando la fuoriuscita di gas. Intimoriti dalla possibilità che il gas potesse diffondersi, gli scienziati innescarono l’incendio che sarebbe dovuto durare pochi giorni, fino al consumo del combustibile. L’incendio dura tuttora e, ad oggi, è la maggior attrazione del deserto del Karakum, che si conferma ancora una volta essere il tesoro del popolo turkmeno.
Deserto del Gobi
Rosso. Lungo anche un metro e mezzo. Spesso come un braccio umano. Simile all’intestino di una vacca. Attratto dal giallo, che percepisce anche qualora si dovesse trovare nei meandri della terra. Pronto a sbucare fuori e a uccidere attraverso scariche elettriche o l’emissione di acido solforico. Non ha bocca, non ha naso, non ha occhi. Le persone ne hanno il terrore. Questo verme gigante si dice viva sotto terra, esclusivamente nel deserto del Gobi, territorio dalle grandi escursioni termiche, che si estende lungo il confine tra Cina e Mongolia, costeggiato in passato dalla celebre via della seta. Il Gobi è un vero e proprio scrigno: ha custodito per millenni uova e scheletri di dinosauro, strumenti di pietra, templi, resti della muraglia cinese. Numerose spedizioni sono state organizzate nella speranza di poter avvistare Olgoi-Khorkhoi, il pericoloso verme gigante, ma ogni tentativo è stato vano e il verme, per ora, sembra destinato a rimanere relegato al campo della criptozologia. Più pericolosi di Olgoi-Khorkhoi, però, sembrano essere le cosiddette tempeste di polvere, che anche da qui si originano, e la desertificazione delle zone limitrofe al Gobi. Fenomeni connessi, che si intensificano a vicenda e hanno effetti sulla qualità dell’aria di moltissimi paesi. Le tempeste di polvere, inoltre, sembrano portare con loro una larga quantità di agenti patogeni e inquinanti. Il governo cinese ha messo in atto varie strategie per contrastare il problema, che consistono principalmente in una serie di manovre atte alla costruzione di una cintura di alberi e boscaglia al confine con il Gobi. Purtroppo non sembrano aver avuto l’impatto sperato e alcuni ecologisti ne mettono in evidenza i rischi. Gli alberi, per esempio, rischiano di prosciugare le acque sotterranee con conseguenze ancora più imponenti. L’unico modo per arginare il fenomeno sembrerebbe lavorare sulle cause, limitando drasticamente lo sfruttamento delle zone semidesertiche.