Come si muore oggi
Morte cardiocircolatoria, morte cerebrale, persona organismo
Originalmente uscito su Yanez Magazine.
C’è una scena dell’anime “La tartaruga rossa” difficile da dimenticare. Ritrae lo stupore e lo smarrimento di un essere soprannaturale davanti al corpo morto della persona che ama. Prima la sorpresa, la disperazione, poi la tenerezza verso il corpo morto, la rassegnazione e l’allontanamento. Nonostante la morte faccia parte della vita di tutti noi, essendo l’unica certezza su noi stessi che abbiamo quando nasciamo, non smette di essere difficile riconoscerla. Trovarsi di fronte al corpo inanimato porta a interrogativi complessi; il corpo è ancora lì, intatto, ma appare vuoto. Stabilire se una persona è morta o meno non è pacifico: quali sono le caratteristiche che un morto deve avere? Quali attività devono essere assenti? Quali organi devono essere compromessi?
Ho provato a indagare l’immaginario collettivo sulla morte, il senso comune, chiedendo a sei persone di diversa età, estrazione sociale e provenienza quali siano gli attributi che una persona deve avere per essere definita morta. Immobile, gelata, cerea, assente. Un morto ce lo si aspetta così. Alla domanda su quali organi debbano cessare l’attività per poter definire una persona morta, mi è stato risposto, all’unanimità, il cuore e, in seconda istanza, con meno preferenze, il cervello. La stessa medicina ha risposto a questi quesiti in maniera non sempre univoca. Se è indubbio che la morte sia un processo di transito tra la cessazione delle funzioni e il processo di decomposizione, non è però ovvio per tutti quali siano le funzioni che debbano fermarsi per poter dichiarare una persona deceduta.
Dal XVII secolo e sino agli anni ‘50 la morte veniva definita come l’estinzione del Tripode Vitale, ossia l’interruzione della funzione respiratoria, cardiocircolatoria e nervosa. Per certificare la morte non solo era fondamentale accertare che fossero venute meno le funzioni che il cuore e i polmoni avrebbero dovuto assolvere, ma anche indagare la perdita reale di vitalità dei suddetti organi e la mancanza di correlazione fra loro e i nervi. La diagnosi non era semplice né certa e comportava comunque un certo tempo di osservazione. La letteratura dell’epoca pullulava di racconti sulla cosiddetta morte apparente. Per rendere la diagnosi quanto più oggettiva possibile sin dall’Ottocento furono sviluppati strumenti atti a rilevare l’avvenuto decesso. L’oftalmoscopio, per esempio, per esaminare il fondo dell’occhio della persona e comprendere la presenza o meno di circolazione sanguigna o l’elettrometro capillare, usato per osservare l’ attività elettrica prodotta dal cuore. Una persona era ritenuta morta quando giaceva immobile, il cuore smetteva di battere e poco dopo smetteva di respirare o viceversa quando smetteva di respirare e poco dopo andava incontro ad arresto cardiaco. Il criterio per accertare la morte quindi era legato all’analisi dell’attività cardiaca. La morte, che si accerta tramite la constatazione che il sistema cardiocircolatorio ha smesso di funzionare, comunemente è detta morte clinica.
Ciò che cambiò radicalmente questo stato di fatto e complicò ulteriormente la diagnosi nella seconda metà del Novecento, fu l’avvento delle tecniche e delle tecnologie rianimatorie e intensive che hanno permesso di compensare artificialmente la mancanza di battito cardiaco e di respirazione, trasformando il modo di definire e concepire la morte. L’invenzione del ventilatore meccanico, che permette la sostituzione di una funzione vitale quale la respirazione, ha reso possibile mantenere in vita persone con lesioni cerebrali o disfunzioni dell’apparato respiratorio. Il defibrillatore, invece, ha consentito di ripristinare il ritmo cardiaco anche di persone a cui il cuore aveva smesso di battere. Macchinari siffatti erano destinati a mettere concretamente in crisi il concetto di morte e portarono, insieme alle altre tecniche intensive e ai progressi di varie branche della medicina, alla sua riformulazione. La cessazione del respiro e del battito cardiaco, quindi, diventano chiaramente non irreversibili e non insostituibili. Nel momento in cui diventa possibile rianimare una persona che ha subìto un arresto cardiaco e mantenere in vita un essere umano senza capacità polmonare, inizia a vacillare l’idea che la morte possa coincidere con l’assenza di battito cardiaco o del respiro.
Esattamente nella stessa direzione e altrettanto importanti furono gli ampi progressi che nel Novecento interessarono la cardiochirurgia. Il cuore divenne monitorabile e operabile. Tecniche di monitoraggio erano sorte sin dal Settecento attraverso l’invenzione prima dello stetoscopio e poi dell’elettrometro capillare (1800). L’elettrocardiogramma, inoltre, introdotto nel Novecento, diede la possibilità di avere una fotografia puntuale e dettagliata dell’intero apparato cardiovascolare, grazie alla quale si aprirono nuovi margini di intervento sul cuore. Le funzioni cardiache divennero quindi migliorabili e addirittura ripristinabili attraverso l’ausilio non solo di farmacoterapie mirate, ma anche di nuovi apparecchi quali bypass, pacemaker, valvole. Fondamentali furono anche gli studi sui gruppi sanguigni e sul meccanismo immunologico che resero possibili le trasfusioni. Negli anni ’50, nella cardiochirurgia, furono introdotti cuori meccanici che resero possibili i primi interventi a cuore aperto. Al 1967, invece, risale il primo trapianto cardiaco. Il cuore, per secoli considerato la sede dell’anima e delle emozioni dell’essere umano, divenne in questo modo un pezzo di ricambio. Dal momento in cui il cuore di un morto può battere nella cassa toracica di un vivo, crolla definitivamente il criterio di morte cardiocircolatoria.
Nella seconda metà del Novecento, i corpi intubati che giacevano inerti nelle terapie intensive erano oggetto di diatriba fra i medici. Era appannaggio del singolo medico stabilire se questi pazienti fossero vivi o morti e decidere di conseguenza se i macchinari fossero di giovamento al paziente o si potessero staccare. La morte si trovò ad essere un fatto medico ed era lapalissiano che urgesse una nuova definizione di morte. O meglio, un nuovo criterio per diagnosticarla. Le cure intensive, infatti, atte a ripristinare le funzioni vitali, quando fallivano rischiavano di dar vita a strane combinazioni. A volte generavano corpi destinati a restare inerti per sempre, ma spesso in grado di respirare autonomamente. Altre volte a corpi rosei e caldi, trasfigurati dai tubi, con organi vitali funzionanti grazie a macchine e, in maniera quasi certa, irreversibilmente privi di coscienza. Si trattava di persone vive o morte? Un gruppo di neurochirurghi francesi nel 1959 studiò alcuni pazienti ricoverati in terapia intensiva e denominò coma irreversibile (coma depassé) lo stato di un corpo che respirava artificialmente e a cui batteva il cuore, ma il cui cervello non era elettricamente responsivo. In cui c’era assenza di recettività, assenza di movimenti e di respirazione, assenza di riflessi e perdita della capacità omeostatica (ossia la capacità di mantenere certi parametri interni intorno a valori prefissati nonostante il variare di fattori interni ed esterni).
Nel 1968 un articolo intitolato A Definition of Irreversibile Coma pubblicato dalla scuola di medicina di Harvard nel Journal of the American Association cambiò radicalmente la definizione di morte, assestando il colpo di scure definitivo, anche sul fronte teorico, al criterio cardiocircolatorio e dando centralità a un nuovo organo: il cervello. Secondo questo articolo, che passerà alla storia come il “Protocollo di Harvard”, il coma irreversibile non è altro che la morte. Nasce così la nozione di “morte cerebrale” che descrive la morte come la cessazione permanente dell’attività cerebrale e invita a constatare il decesso tramite criteri neurologici, ossia attraverso il monitoraggio dell’attività nervosa. La morte definita in questo modo non è più un evento facilmente databile, ma un processo in cui la decisione medica è estremamente influente. Prima delle cure intensive e del protocollo di Harvard, l’individuo veniva considerato morto quando smettevano di funzionare gli organi vitali, dopo Harvard un individuo poteva essere ritenuto morto nonostante alcuni suoi organi continuassero a essere vivi.
Agli inizi degli anni ’80, per conferire maggior validità scientifica al protocollo di Harvard, alcuni neurologi statunitensi presentarono la teoria del cervello come integratore centrale, ossia come organo che organizza e coordina le attività sostanziali del corpo umano. Nel 1981 la President’s Commission for the Study of Ethical Problems rafforzò questa teoria, sostenendo che con morte dell’intero cervello si intendesse proprio la morte dell’encefalo, cioè l’organo reputato essere quello che permette all’organismo di essere un tutto integrato. Inoltre la Commissione sottolineò come la nozione di morte non fosse cambiata, ma ad essere cambiati fossero solo i criteri diagnostici.
E’ innegabile che negli ultimi decenni del secolo scorso, nella comunità scientifica urgeva che la nozione di morte cerebrale trovasse proseliti, poiché risolveva due problemi concreti, enunciati inoltre proprio nella premessa del celeberrimo articolo. Da una parte la mancanza di letti liberi in terapia intensiva, all’epoca occupati da un numero altissimo di corpi in coma irreversibile (effetto collaterale delle tecniche rianimatorie). Dall’altra accorciare le tempistiche dell’espianto di organi per rendere possibili i trapianti. Le ricerche sulla funzione del cervello e su cosa si intendesse per morte dell’intero cervello, erano tutt’altro che quisquilie e rappresentano tutt’ora questioni di rilievo nel dibattito bioetico contemporaneo. Le parti del cervello in causa nella definizione di morte erano e sono la corteccia e il tronco encefalico. Quando nel discorso bioetico si parla di tronco encefalico si intende quella parte del cervello che regola le funzioni automatiche come la respirazione, il battito cardiaco, la termoregolazione, la digestione, gli stimoli involontari. Quando si parla di corteccia, si fa riferimento a quella parte da cui dipendono le cosiddette funzioni superiori: la coscienza, il linguaggio, le capacità logiche. La morte del tronco encefalico, secondo la maggior parte dei neurologi, comporta inevitabilmente la morte della corteccia. Invece il danneggiamento totale della corteccia può lasciare del tutto intatto il tronco encefalico.
Il protocollo di Harvard fu man mano accettato da tutti i paesi avanzati (anche se non sempre facilmente, come per esempio in Giappone), forse proprio perché visto come la conseguenza naturale dei progressi scientifici e tecnologici: è tuttora alla base di molte legislazioni nazionali in materia di definizione di morte e trapianti. Fino all’avvento delle tecnologie intensive la legislazione italiana non aveva mai elaborato alcuna nozione di morte, rimettendosi a quella formulata dalla medicina. Le cure intensive segnarono il punto di svolta anche in questo campo e resero necessario un intervento legislativo, ancora più urgente per il timore capillare che la diagnosi di morte potesse essere dettata da ragioni utilitaristiche legate ai trapianti. Non è un caso che in Italia sia la legislazione, sia il Comitato Nazionale per la Bioetica, abbiano sempre preferito separare i due argomenti e trattarli in maniera completamente indipendente. Una precauzione simile non si è avuta quasi in nessun altro Stato. La legge quindi è intervenuta a regolamentare la morte nel momento in cui c’è stata l’esigenza di tutelare i diritti della persona, evitando sia che un corpo potesse essere usato per fornire pezzi di ricambio, sia che cure intensive fossero spinte talmente oltre da diventare lesive della dignità della persona. Fu una legge del 1993, poi integrata da una legge del 1994 e da un’altra del 2008 (che disciplinano le modalità per accertare e certificare la morte), a sancire definitivamente che la morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo, divenendo in questo modo la morte cerebrale l’unico criterio legale.
La cessazione del respiro e del battito cardiaco, quindi, vengono considerate un effetto della morte dell’encefalo. La certificazione di morte cerebrale viene decretata se il paziente è incosciente, respira solo artificialmente, non risponde a stimoli esterni e mostra i segni di danni cerebrali seri e irreparabili. Per accertare queste condizioni viene effettuata una batteria di test, eseguita da tre medici specialisti: un medico legale, un neurologo e un anestesista-rianimatore. I test vengono effettuati almeno due volte, nell’arco di sei ore e se sorge un dubbio, anche a uno solo dei tre medici, si prosegue con l’esame per monitorare l’afflusso di sangue nel cervello. Nel panorama europeo la legge italiana è vista come garantista e prudenziale, nonostante non siano mancate critiche alla stessa soprattutto da parte dei gruppi religiosi.
Pur essendo entrata a pieno diritto nella legislazione, nel dibattito bioetico la definizione di morte secondo il criterio neurologico è stata ed è tuttora attaccata da diversi punti di vista. Non è mancato chi ha avanzato l’accusa che fosse una definizione funzionale al trapianto di organi. Grande confusione si è creata inoltre intorno alla nozione “cessazione irreversibile di tutto il cervello”, tanto che nel dibattito filosofico si è arrivati a parlare di morte cerebrale e morte cerebrale totale. Che cosa si deve intendere per “morte di tutto il cervello”? La persona quindi è morta quando tutte le strutture complesse e innumerevoli che compongono il cervello hanno cessato la loro attività? Da una parte ci furono e ci sono i sostenitori della morte cerebrale, intesa come morte di tutte le strutture che compongono la vastissima attività cerebrale, dall’altra chi ritiene che la morte del tronco encefalico sia sufficiente perché comporta come sua conseguenza lo spegnimento di tutte le funzioni cerebrali ed è per logica una morte cerebrale totale.
Un’altra contestazione riguarda i test diagnostici. Nel dibattito scientifico nazionale e internazionale è stata messa in discussione la possibilità di accertare la morte dell’encefalo in maniera tempestiva, attraverso le strumentazioni disponibili. Facilmente il quadro sintomatologico della morte cerebrale può essere confuso con altre patologie, come l’ipotermia per esempio. Un dibattito a parte riguarda la funzione centrale del cervello. Come abbiamo già rilevato, da Harvard in poi il cervello fu considerato avere una funzione organizzatrice che regola tutti i processi vitali: viene visto cioè come il centro di controllo dell’integrazione dell’organismo. Questo rende possibile considerare la cessazione della sua attività come morte della persona. Un corpo, quindi, può anche possedere un cuore che batte e polmoni che respirano grazie al sostegno dei macchinari dedicati, ma se il cervello è inattivo non può più essere considerato come un organismo vivo. Sarà un sistema morto con parti vive. Questo assunto ha trovato diversi contestatori. Nonostante le cessazione dell’attività cerebrale, il corpo (anche se con l’ausilio delle macchine) continua a svolgere attività complesse come processare l’ossigeno, metabolizzare il cibo, termoregolarsi, fornire una risposta immunitaria alle infezioni, secernere ormoni. In alcuni sporadici casi, donne in morte cerebrale hanno potuto portare a termine la loro gravidanza dando alla luce un bambino vivo e sano. A chi obietta che ciò è possibile solo perché il corpo è sostenuto dalle macchine, la risposta puntuale riguarda l’impossibilità di utilizzare in questo dibattito il criterio della spontaneità. Altrimenti andrebbero dichiarati morti anche i pazienti coscienti in insufficienza polmonare permanente, che vivono grazie alle macchine. La questione del cervello visto come organizzatore dell’organismo, sia per chi la promuove, sia per chi la contesta, implica l’identificazione dell’essere umano con il suo organismo, con il suo corpo funzionante. Ma l’essere umano davvero è un organismo?
Per numerosi filosofi e soprattutto nel dibattito contemporaneo recente, l’essere umano non è un organismo, anzi può morire prima del suo organismo. Negli ultimi dieci anni il dibattito bioetico si è spostato molto sul tema del limite nell’applicazione delle cure, ossia su quando sia giusto terminare le cure per garantire la tutela della dignità della persona. Che cosa si intende, però, filosoficamente, per persona? Da che cosa è costituita? Quali caratteristiche deve avere? Quali sono le parti che la compongono? Secondo Shelly Kagan, professore di filosofia morale nell’università di Yale, ci sono fondamentalmente due posizioni rilevanti da tenere presenti per rispondere a queste domande. La posizione dualistica che vede la persona composta dal corpo e da qualcosa di immateriale che possiamo chiamare mente o anche anima. E poi la posizione monista, o anche detta materialista, che indica il corpo come l’unica componente della persona. La persona per quest’ultima posizione è un corpo, ossia un oggetto materiale in grado di fare cose straordinarie che gli altri oggetti materiali non sanno fare. Secondo quest’ultima definizione, la morte del corpo corrisponde alla morte della persona, essendo la persona semplicemente corpo. Secondo la concezione dualista, invece, si aprono diversi scenari. Secondo alcuni l’anima/mente si distrugge con il corpo, pur essendone separata. Secondo altri, l’anima/mente può sopravvivere essendo una componente sostanzialmente diversa dal corpo.
Diciamo quindi che la persona è o un corpo in grado di fare cose straordinarie, o un soggetto dotato di un corpo e di una mente che lo rende capace di fare cose straordinarie. Ma quali sono queste caratteristiche straordinarie di cui stiamo parlando? Cosa rende un essere vivente una persona? Sentire, pensare, comunicare, relazionarsi a se stesso e agli altri. Tutte facoltà collegate alle cosiddette funzioni superiori che secondo la medicina contemporanea sono correlate alla corteccia. Diversi neurologi e filosofi caldeggiano per la tutela della dignità della persona e l’identificazione della morte proprio con la cessazione delle attività della corteccia. Propendono, quindi, per considerare anche i corpi in stato vegetativo permanente morti e per indicare nell’uso del sondino nasogastrico uno strumento di accanimento terapeutico. D’altra parte, nell’immaginario collettivo, il sondino è stato quasi demedicalizzato. Quest’ultima diatriba non è destinata ad avere una rapida e facile soluzione.
Da una parte chi sostiene che l’essere umano sia, come tutti gli altri esseri viventi, un organismo, e vada trattato come tale, per cui la sua vita ha senso e dignità anche senza coscienza: dopo tutto molti organismi ne sono privi e non per questo viene messo in dubbio il senso del loro esistere. Dall’altra chi lo considera una persona, per cui la cessazione della coscienza va a coincidere con la sua morte. Il dibattito bioetico quindi è talmente variegato che coesistono istanze per far sì che si chiami morte anche lo stato vegetativo e nel contempo chi propone di tornare a diagnosticare la morte secondo il criterio cardiocircolatorio.
In un panorama così incerto, sembra che l’unica alternativa possa essere che la legge e la filosofia deleghino al singolo individuo la scelta su se stesso, quanto più possibile. Chiamando ognuno a esprimere e a decidere quando vuole essere considerato morto. Compito della legge e della filosofia è, però, inquadrare bene il problema, per rendere comprensibile a tutti la questione e consentire a ciascuno, indipendentemente dal grado di istruzione, una scelta informata e pienamente consapevole.