Cognomi di potere
Testuale | 2021, May    

Cognomi di potere

A chi appartieni?

Originalmente uscito su Yanez Magazine.

Illustrazione di Ivano Talamo

“A chi appartieni?” Una domanda che gli anziani della città in cui sono cresciuta usavano rivolgere spesso ai bambini che giocavano in strada; la risposta corretta, nel mio caso, non era il mio cognome ma il cognome di mia nonna, appartenente a un nucleo conosciuto e riconosciuto. Mio padre, infatti veniva da un’altra città e il suo cognome non diceva niente a nessuno. Il nucleo di mia nonna invece era ben radicato, proprietari terrieri, con caratteristiche fisiche particolari, cui il comune aveva espropriato le terre e che con i soldi di quegli espropri avevano costruito due palazzine. Quel cognome dava molte informazioni: indicava il mio status socio-economico, il luogo esatto dove vivevo, il mio futuro aspetto fisico. La seconda domanda era: “A chi esattamente?” In famiglia di mia nonna erano infatti in molti, dieci fratelli e sorelle. Questa seconda risposta in genere non piaceva, appartenevo al lato sfortunato. Il marito di mia nonna era figlio illegittimo. La mia bisnonna aveva cresciuto i suoi due figli da sola, emarginata dalla famiglia per l’onta. A quel punto il mio inquadramento era chiaro, oltre alle indicazioni suddette, avevo dato anche chiarimenti sulla mia credibilità. Presto imparai a fornire solo il mio cognome e a non aiutare l’interlocutore nella mia collocazione dando anche il dettaglio del cognome di mia nonna e mi trovai benissimo. Il cognome dice, infatti, molto di più e molto di meno di quello che pensiamo.

L’interesse per i cognomi spesso deriva da una certa fascinazione per gli stemmi, per le famiglie importanti, per i potenti. Non pochi studiosi se ne sono occupati solamente per esaltare una certa genealogia o per elaborare una mitologia sul proprio gruppo di appartenenza. Lo studio dei cognomi è inscindibile dai meccanismi di potere poiché i cognomi sono legati a doppia mandata con la ricchezza e con la proprietà. Proprio questo ha reso difficile tracciare una storia precisa della cognominazione, essendo le fonti spesso inquinate da falsi, prodotti da qualcuno con lo scopo di nobilitarsi, dimostrando di avere antenati illustri o di essere appartenuto a un certo casato. La smania di sbandierare l’importanza della propria famiglia sembra infatti aver avuto un ruolo nella diffusione del cognome come modalità di identificazione.

Tracce di qualcosa che può assomigliare vagamente ai nostri cognomi le ritroviamo già nella età medio-repubblicana della civiltà romana, anche se è inconfutabile che le caratteristiche dei cognomi attuali siano legate a doppia mandata alle vicende medioevali. Il nome di un antico romano appare composto da più elementi tra cui il nome della gens (gruppo di appartenenza) e il cognome, una sorta di soprannome, che alludeva a caratteristiche fisiche, a qualità personali, a episodi significativi. Il cognome, almeno inizialmente, non era ereditario; il nome della gens naturalmente sì. La società romana, inoltre, conosceva un sistema di adozioni atte a stringere alleanze e a tramandarsi eredità; nei vari elementi che componevano un nome si trovava traccia di questi passaggi. Questo dà la misura di quanto un nome servisse a collocare socialmente chi lo portava.

Questa analisi, però, tiene conto solo di una parte degli abitanti dell’antica Roma e lascia fuori grossi numeri: gli stranieri, le donne, gli schiavi. La ricostruzione in questo caso è difficile, le fonti documentarie sono poche, le interpretazioni contraddittorie. L’onomastica delle donne è dibattuta. Solitamente venivano individuate attraverso il nome della gens di appartenenza del padre declinato al femminile (la figlia di Caio Giulio Cesare si chiamava Giulia per esempio) o con l’intero nome paterno declinato al femminile. Le sorelle venivano distinte fra loro o tramite numero ordinale o, se erano solo due, tramite un aggettivo come minore o maggiore. Le donne, quindi, erano sprovviste sia del cognome sia del nome proprio. Talvolta il nome di una donna appare affiancato anche dal patronimico (il nome del padre), molto raramente dal nome del marito. La donna quindi era identificata attraverso la famiglia paterna. Il matrimonio, infatti, non sempre comportava un passaggio dalla famiglia d’origine alla famiglia del marito. La ricostruzione della nomenclatura degli schiavi è altrettanto incerta, probabilmente venivano chiamati con un solo nome che indicava la loro provenienza. Gli schiavi affrancati (liberati), assumevano, invece, lo stesso gentilizio (nome della gens) del padrone che li liberava. Un esempio chiaro è il nome del commediografo Terenzio, nato schiavo. Il suo nome intero, da persona libera, era Publio Terenzio Afro. Il cognome Afro, probabilmente il nome con cui era stato chiamato fino alla sua liberazione, indicava la sua origine, era di Cartagine. Publio Terenzio, invece, ricalcava il nome proprio e il gentilizio del suo ex padrone, il senatore Publio Terenzio Lucano. Il nome con cui è giunto fino a noi è il gentilizio Terenzio. Dall’analisi dell’onomastica romana possiamo trarre alcune conclusioni: il nome ruota intorno alla figura paterna, tanto che un elemento si tramanda di padre in figlio/a. Gli uomini romani avevano diritto a un nome complesso che dava molte informazioni sulla loro condizione socioeconomica e venivano ricordati attraverso il loro cognome; le donne e gli schiavi liberati, invece, attraverso il nome della gens.

Sotto l’influsso del cristianesimo e delle invasioni longobarde e barbare il sistema onomastico romano si complica, subendo molti influssi. Proprio per questo man mano che l’impero romano si sgretola ci si imbatte nelle nomenclature più disparate, contrassegnate da una forte instabilità e indeterminatezza. Un maschio in età medioevale poteva essere definito da moltissimi elementi diversi: dal nome proprio, dal patronimico (raramente dal matronimico), dal mestiere, dal luogo di provenienza, dal soprannome; spesso da tutti questi elementi insieme. Il nome, inoltre, aveva un certo margine di discrezionalità che dipendeva anche da chi lo trascriveva. Una stessa persona possiamo trovarla registrata con nomi differenti in documenti diversi. Il processo di denominazione – e in seguito di cognominazione – è stato lungo, dissimile geograficamente, differente a seconda delle tipologie di sistemi politici a cui si sottostava, ma con alcuni tratti sempre identici. Il nome dipendeva spesso da qualche elemento del nome del padre, anche prima che questo divenisse stabile ed ereditario.

Lo studio dei cognomi si serve di documenti notarili, processuali, di elenchi religiosi; proprio attraverso questi è facile constatare come in alcuni luoghi nell’Alto Medioevo una modalità identificativa fosse l’elenco genealogico in linea paterna, soprattutto in occasione di compravendite. Definirsi secondo la genealogia, indicando i propri capostipiti e dando prova di una lunga generazione, poteva conferire più potere e più garanzie a livello contrattuale. Questa pratica finiva per dare un grande vantaggio ai nobili, che spesso riuscivano a risalire fino alla decima o quattordicesima generazione, contro i contadini che arrivavano al massimo alla quarta. Il capostipite indicato era quasi sempre un uomo, tranne in pochissime eccezioni, che sono state spesso spiegate rimandando a un costume germanico di regolamentazione dell’eredità. Una capostipite femmina poteva significare, quindi, un matrimonio in cui la donna aveva portato un’eredità significativa. A ben guardare, inoltre, i nomi presenti negli atti notarili e non solo erano soprattutto nomi di maschi. Erano infatti i maschi a comprare, a vendere e a possedere. Per avere un numero importante di nomi femminili nei documenti bisogna aspettare il Concilio di Trento, che stabilì la registrazione parrocchiale degli eventi chiave della vita di un cristiano (battesimo, matrimonio, cresima, morte). Per quanto non sia possibile generalizzare, data la grandissima mole e differenziazione di documenti, si può dire che i pochi nomi di donne che si ritrovano sono composti spesso da elementi differenti rispetto a quelli che abbiamo visto definire i maschi. Le donne spesso le troviamo registrate semplicemente con il nome proprio anche in documenti di compravendita. Spesso il nome proprio è accompagnato dal nome del marito con la formula “di” (es. Maria di Giuseppe) o dal nome del padre. Per alcune vedove viene indicato sia il nome del marito attuale che di quello defunto (Maria di Giuseppe fu di Giovanni). Le donne insomma venivano definite dagli uomini che avevano intorno. Le donne che dispongono di un nome simile a quello maschile, ossia indicante il mestiere, il toponimo o il soprannome, sono spesso considerate di “malaffare”, le prostitute per esempio. La donna che dispone di più libertà perché magari lavora e ha tratti che possono equipararla anche lontanamente a un maschio perde immediatamente la rispettabilità.

Le forme cognominali, così come le conosciamo oggi, iniziarono ad affermarsi tra l’undicesimo e il dodicesimo secolo allorché la mobilità fra i luoghi divenne un fenomeno importante, i territori iniziarono a urbanizzarsi in modo più massivo e crebbe la ricchezza. Un tratto tipico del cognome fu infatti il suo essere estremamente connesso con le vicende economiche di una famiglia: l’eredità, la ripartizione di proprietà, la rivendicazione dell’uso di un bene, le migrazioni. Per i nobili spesso il cognome veniva tratto dal nome di un antenato che si era distinto particolarmente. Difficilmente l’antenato era una donna. Quelle rare volte che ciò capitava era dovuto a nascite illegittime, a un’antenata vedova più ricca del marito o anche alle conseguenze delle riforme religiose. Quando ai sacerdoti venne proibito sposarsi, portare il nome di un vescovo divenne imbarazzante. Così i discendenti di papi o di alti prelati si appoggiarono al matronimico. La patrilinearità fu la normale conseguenza di ciò che il cognome significava. Essendo diventato il cognome presto presso i nobili un simbolo di potere, non ci si può aspettare che venisse tratto da nomi femminili, in un’epoca in cui le donne non avevano alcun ruolo pubblico e alcun potere. Del cognome materno, nel Basso Medioevo, si trova traccia laddove uno stesso clan si divise in più famiglie (lignaggi). Divisione che segnala una rottura della continuità spesso in funzione gerarchica e che indicava un cambiamento nella condizione sociale o patrimoniale di un gruppo. Il gruppo che si staccava prendeva un nuovo cognome, affiancandolo a quello originario o sostituendolo. Spesso il nuovo cognome era quello di una donna erede, che portava con sé delle proprietà importanti e soprattutto un titolo, che era il caso di trasmettere ai discendenti (non troppo diversamente dalla modalità alto medioevale succitata). Tra il tredicesimo e il quindicesimo secolo questo sistema saltò e la differenziazione familiare all’interno dei clan non dipese più dai matrimoni. Furono gli anni in cui cambiò anche il modo di gestire l’eredità. I matrimoni fra eredi divennero possibili e l’eredità della donna si iniziò a fondere con quella del marito, mentre precedentemente passava integra alla discendenza. I meccanismi di eredità hanno determinato spesso la cognominazione, basti pensare a quanto il legame fra cognome e proprietà fece sentire il suo effetto anche sulla mezzadria e sulla piccola proprietà contadina. Forme cognominali si stabilizzarono più facilmente laddove c’erano dei beni da conservare e spartire. I passaggi notarili ebbero, infatti, una funzione importante nella diffusione del cognome.

Bisogna pur dire, però, che al 1257 risale un documento bolognese importante perché dà indicazioni sulla cognominazione delle classi subalterne. E’ un elenco di servi che il comune decise di riscattare dai padroni. Si tratta di un corpus cospicuo, seimila nomi fra ancelle, contadini e servitori. Quello che si evidenzia è un’abbondanza di patronimici e toponimi, le donne spesso sono denominate con il nome del marito vivo o defunto. Quello che è più importante, però, è che per tutti ci sono anche forme protocognominali ( più simili a soprannomi). Da qui si desume che la tendenza al cognome nel tredicesimo secolo iniziava ad affermarsi anche nelle classi sociali più basse.

Se nel Medioevo l’amore per i blasoni era innegabile, nell’età moderna la situazione si esasperò ulteriormente, portando i ricchi a rincorrere il mito dell’aristocrazia del sangue, spesso simboleggiata dal cognome giusto. Il desiderio dei potenti di sbandierare cognomi altisonanti andava di pari passo con la prepotenza con cui imponevano la supremazia politica. Nello stesso tempo chiunque aveva una proprietà aveva interesse a rendere più facile l’individuazione degli eredi. La storia dei cognomi divenne così la storia di coloro che volevano affermarsi e rendere ereditario il proprio potere. Avere un cognome importante iniziò a significare, per dirla con le parole dello studioso Roberto Bizocchi “pretendere rispetto e incutere timore”. Tra la fine del 1300 e la prima metà del 1500 il problema delle famiglie prepotenti era estremamente sentito, in Italia soprattutto a Genova e a Firenze. Molte famiglie potenti “con ansia di grandeggiare” si attribuivano cognomi aggressivi o rivendicavano antenati di potere.

Ma davvero un cognome era ed è in grado di darci indicazione sull’ascendenza di un individuo? Il pensiero europeo ha sempre mostrato un grande scetticismo a tal proposito, mentre gli studi anglosassoni hanno proceduto a lungo con questa credenza, concentrandosi sulle ricostruzioni genealogiche e araldiche. Anche in Inghilterra la storia dei cognomi è un fatto medioevale. Appare legata alle simpatie per i costumi d’oltremanica di Edoardo il Confessore oltre che ad un evento traumatico, la conquista normanna. Così con orde di preti, commercianti, avventurieri, nell’isola approdò il sistema feudale che mutò profondamente l’assetto economico-sociale e in questo contesto probabilmente si accelerò la diffusione dei cognomi, divenuti segno di distinzione. Una leggenda racconta che la figlia di un valente cavaliere non volle sposare Robert, il figlio illegittimo del re Enrico I, finché il padre non provvide a fornirgli un cognome. Un altro costume che probabilmente la conquista normanna portò con sé, destinato ad avere vita lunghissima, fu la coverture, una dottrina legale che vedeva il matrimonio come la fusione della sposa nel marito; la donna sposandosi spostava la sua persona legale su quella dello sposo, trasferendo a lui i propri diritti e obblighi giuridici. Perdendo il diritto di proprietà e assumendo l’appellativo del marito. Gli storici non sono concordi sulla capillarità di diffusione e sugli effetti reali di questo costume in Inghilterra. C’erano, infatti, moltissimi metodi per aggirarla qualora lo status sociale della donna fosse veramente molto alto. Sicuramente, però, è un fatto che ancora nel diciassettesimo secolo lo storico William Camden esprimesse un giudizio pesantissimo sulle donne sposate che manifestavano il desiderio di mantenere il proprio nome, accusandole di “ambizione” “impertinenza” e “sfrontatezza”. L’accusa di Camden ci veicola due informazioni importanti. Ancora una volta per una donna il desidero di essere persona coincide con la perdita della rispettabilità; il cognome, inoltre, si conferma uno strumento di potere. “Sui cognomi si fondano la gloria e il credito degli uomini, e attraverso di loro si trasmette la propria esistenza ai posteri”.

Il sistema cognominale (e l’uso della coverture) dall’Inghilterra passò alle colonie, nel nuovo mondo, “dove più che altrove le nomenclature riflettevano relazioni di dominio e di subordinazione” [Omi Leissner]. Il sistema economico delle colonie funzionava grazie a un apparato schiavistico basato sull’importazione di forza lavoro dall’Africa. Agli schiavi, in quanto beni mobili del proprietario, veniva sistematicamente negata la possibilità di avere un nome fisso, poiché anche il loro nome proprio doveva dipendere dalla volontà del padrone di turno. Degli schiavi della prima ora, nati liberi, quasi nessuno mantenne il nome originario. Questi infatti suonavano difficili alle orecchie dei padroni che preferivano ricavarne una forma anglicizzata o appioppargliene di nuovi, anche di strambi o insoliti. Spesso è stato sottolineato come i nomi dati agli schiavi fossero dei diminuitivi tesi ad umiliarli e a spersonalizzarli; a volte un padrone aveva più schiavi con lo stesso nome e li distingueva uno dall’altro attraverso epiteti come piccolo, grande, vecchio o anche attraverso il matronimico. La schiavitù, d’altra parte, fu un processo matrilineare, cioè si era schiavi se figli di schiave. Moltissimi padroni, infatti, disponevano sessualmente dei corpi delle schiave e la trasmissione matrilineare permetteva di farlo senza perdere la manodopera e senza che i figli illegittimi avanzassero pretese ereditarie. Fuori dalle piantagioni dove lavoravano, invece, gli schiavi venivano spesso identificati con il nome proprio preceduto dal nome del padrone (il cosiddetto genitivo sassone), qualcosa che in italiano suona come Tom di Brown. Le donne schiave sposate, invece, tramite il nome del marito oltre che del padrone (es. Betty di Tom di Henry) . Il sistema di nomenclatura africano, come quello europeo, era piuttosto ricco di patronimici e altre indicazioni genealogiche. Rinunciando al loro sistema onomastico gli schiavi rischiavano quindi di perdere la connessione con le loro parentele. La vita nelle piantagioni, inoltre, vide il costituirsi di nuove famiglie, spesso destinate a disgregarsi a causa dei passaggi di proprietà. Proprio per non perdersi fra loro, le schiave iniziarono ad attribuire in segreto nomi ai loro figli, destinati a restare nascosti ai padroni. Nelle zone dove l’uso dei cognomi era capillare, non era permesso agli schiavi averne uno, tranne a quegli schiavi che esercitavano autorità sugli altri schiavi. Da un certo punto in poi le famiglie di schiavi se ne iniziarono a dotare segretamente, ricorrendo in questo caso non a un cognome inventato di sana pianta, né tantomeno al cognome del proprio padrone, ma prendendo per loro stessi il nome di famiglia di qualche altro latifondista. Un cognome conosciuto e temibile insomma. Questo evidenzia ancora una volta la connessione tra cognome e potere.

Fino all’inizio dell’Ottocento la situazione cognominale fu instabile in Europa come nelle colonie; gli stessi schiavisti delle zone più rurali spesso ne erano sprovvisti. Tra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo, però, il quadro filosofico cambiò, rivoluzionando anche l’onomastica. Si fece sempre più forte l’idea che un buon governo non potesse prescindere dalla conoscenza sistematica di un territorio. Nacquero uffici di controllo anagrafico e si diede l’avvio a un’opera gigantesca di burocratizzazione e di disciplinamento della realtà. L’illusione era fortissima; il filosofo utilitarista Jeremy Bentham arrivò ad asserire che dando un nome e un cognome a ognuno si sarebbero azzerati i reati. Buon governo divenne sinonimo di controllo. Individualizzare le persone dandogli un nome e un cognome preciso diede vita al cosiddetto governo dei corpi dello stato moderno; nello stesso tempo, però, diede a ogni cittadino la possibilità di avere dei diritti e di usufruirne. La burocrazia borbonica impose il nome e il cognome a tutti, anche alle donne (invitate inizialmente, però, a qualificarsi indicando anche il nome del marito), decurtando definitivamente tutte le forme di denominazione fino ad allora esistenti.

Nel 1865, quindi, anno in cui fu abolita la schiavitù, era presupposto che ogni cittadino americano avesse un nome e un cognome. Dopo la proclamazione di emancipazione quindi circa quattro milioni di ex schiavi adottarono cognomi. Per gli ex schiavi prendere un cognome era un passo fondamentale per il raggiungimento dell’indipendenza. Nello stesso tempo, però, in alcune zone rurali conservatrici, fu un passaggio da fare con cautela. Il processo dell’abolizione fu lunghissimo; per tanti anni lo status dei neri rimase ibrido. Proprio dopo la guerra di secessione, infatti, si inasprirono i conflitti sociali e l’odio dei bianchi assunse forme spaventose; in questo contesto sbandierare il possesso di un cognome poteva scatenare reazioni violente. Comunque sia, con la fine della schiavitù gli ex schiavi si trovarono a doversi inventare la loro nuova identità. La scelta del cognome fu problematica e diversificata, ma quasi sempre conservatrice e conformista. Quasi tutti/e assunsero un cognome da bianco, adeguato all’ambiente dove vivevano. Coloro che se li erano attribuiti in segreto, mentre lavoravano nelle piantagioni, li lasciarono emergere. Alcuni optarono per il cognome degli abolizionisti che li avevano aiutati a fuggire o per un nome che indicasse un’abilità o un mestiere (analogamente a come era successo in Europa). Non mancò chi si attribuì il cognome di qualche latifondista schiavista particolarmente potente nella speranza di ottenerne la simpatia e la protezione; tanti altri conservarono il cognome dell’ex padrone. Ironicamente per quasi tutti gli ex schiavi il cognome dell’ex padrone era l’unico elemento di connessione con gli altri familiari e con il proprio passato. Le schiave seguirono l’esempio delle bianche prendendo, qualora fossero sposate, il cognome dei propri mariti. Durante gli anni dell’abolizionismo, i movimenti femministi americani spesso esplicitarono la somiglianza tra la situazione delle donne americane e quella degli schiavi, partendo proprio dalle nomenclature. Gli schiavi venivano chiamati con il cognome del padrone, proprio come le donne che erano costrette a prendere il cognome del marito in una società che diventava sempre più bigotta e in cui donna iniziava a essere sinonimo di moglie. Addirittura nel diciannovesimo secolo, con l’irrigidimento dello standard di modestia femminile, non era difficile che una donna delle classi “educate” venisse chiamata con il nome completo del marito es. signora Thomas Brown. In realtà il problema delle donne e quello degli schiavi erano solo apparentemente uguali, nonostante indicassero una subalternità. Attraverso quei nomi le donne acquisivano status e rispettabilità, gli schiavi maschi invece la perdevano, secondo quella metafora cognitiva spesso radicata nelle società per cui una donna è tanto più rispettabile quanto più è trasparente e un uomo è tanto più rispettabile quanto è evidente. Il tema della nomenclatura infiammò il dibattito femminista americano ottocentesco, con posizioni assolutamente contemporanee: “Quando uno schiavo fugge da una piantagione meridionale, prende subito un nome come primo passo verso la libertà, è la prima affermazione dell’identità individuale. La dignità di una donna è ugualmente coinvolta in un nome per tutta la vita, per sottolineare la sua individualità. Non possiamo sottovalutare l’effetto demoralizzante sulla donna stessa nell’acconsentire a fondersi così completamente nell’identità di un altro “ [Elizabeth Cady Stanton]. A fine Ottocento, però, la protesta sui cognomi delle donne perse consistenza e il comportamento sociale riconosciuto divenne per tutti il modello “signora Thomas Brown”.

Da questo breve e incompleto excursus storico risulta chiaro come un nome non sia mai un fatto neutro e il cognome soprattutto sia legato intimamente con il potere e il prestigio. Ricordo ancora una ragazza eritrea che aveva preso in affitto una camera a casa di una mia conoscente, che mi fu presentata come Michela. Si chiamava, invece, Seghed. Mi disse che la coinquilina si stancava a pronunciare questo nome e poiché sulla sua carta di identità era scritto qualcosa che ricordava vagamente Michele (era in realtà il nome del padre), decise di chiamarla Michela, per pigrizia post-coloniale. Ugualmente un medico che andò a lavorare in Camerun tornando mi disse che una persona del villaggio dove aveva prestato servizio aveva chiamato il figlio con il suo nome e cognome, probabilmente nella medesima dinamica post schiavista per cui gli ex schiavi cercavano la protezione di un bianco adottandone il cognome.

Ma che cosa è legalmente un nome? Enrico Spagnesi, professore di diritto medievale nell’università di Pisa, sostiene che nel nostro stato civile i nomi siano un obbligo e un diritto; per l’esattezza nella Costituzione repubblicana il nome afferisce alla sfera dei diritti della personalità, ossia quei diritti “soggettivi assoluti che spettano all’essere persona in quanto tale, così funzionalmente diretti ad affermare e garantire esigenze di carattere esistenziale”. Secondo Lefebvre-Teillard storica francese specializzata in storia del diritto, il cognome andrebbe più che altro pensato legato ai due concetti di saisine, qualcosa a metà tra possesso e proprietà, e costume. Che cosa sia il nome non è una disquisizione filosofica per pochi perché la sua definizione finisce per avere un peso sull’uso che se ne fa. Se il nome è diretto a garantire esigenze di carattere esistenziale, nessuno dovrebbe essere tenuto a cambiarlo. Se il nome è una proprietà tutti dovrebbero poterlo trasmettere ai propri figli.

In un momento storico in cui sempre più donne acquisiscono uno status completo di individuo indipendente avente potere economico e sociale, il dibattito sull’uso dei nomi è quanto mai attuale. La tematica contemporanea ruota proprio attorno al tema del cognome della donna da sposata e alla possibilità per la donna di trasmettere il proprio cognome ai figli. Non è un caso che poche settimane fa una donna ricca e potente, Chiara Ferragni, abbia dato alla sua secondogenita anche il suo cognome e non solo quello del marito; e, d’altro canto, che abbia sollevato un polverone la decisione di un’altra donna potente, l’avvocato Amal Ramzi Alamuddin di prendere il cognome del marito, un noto attore americano.

Le leggi che regolano il cognome che acquisisce una donna sposandosi e la trasmissione del cognome ai figli in questo momento storico sono disparate. In Italia la donna sposata è tenuta ad aggiungere al proprio il cognome del marito (anche se poi non si capisce dove, poiché ai fini identificativi deve usare il suo cognome da nubile) e la trasmissione del cognome ai figli nati all’interno del matrimonio vincola a quello paterno; quello materno si può aggiungere dietro opportuna richiesta. Solo in caso di assenza del riconoscimento paterno, il cognome dei figli sarà quello della madre. In Francia e negli Stati Uniti (non in tutti gli stati) ogni membro della coppia può conservare il cognome che aveva da non sposato o adottare quello del partner, nello stesso modo si può scegliere autonomamente il cognome da trasmettere ai figli. La Gran Bretagna oltre a questa possibilità ne tira fuori dal cappello una nuova: i coniugi possono anche prendere entrambi un doppio cognome separato da un trattino o integrare parti dei due cognomi fra loro dando vita a un nuovo cognome; al figlio può essere dato anche un cognome diverso da quello dei genitori, scelto per lui. Anche la Svezia esce fuori dal coro, i membri della coppia possono mantenere entrambi il proprio cognome da non sposati o sceglierne uno dei due per entrambi. In caso di cognome comune, il figlio prende automaticamente quel cognome. Qualora invece i due coniugi avessero mantenuto il proprio cognome originario, al figlio viene assegnato il cognome della madre; in questo modo in linea di principio non viene fatta alcuna differenza tra i figli nati nel matrimonio e i figli nati fuori dal matrimonio.

Al di là delle leggi però, la realtà dei fatti presenta un quadro molto diverso. La maggior parte delle donne nei paesi occidentali evoluti sceglie il cognome del marito sia per se stessa sia per i figli. Sono le donne affermate e con un titolo di studio le sole a scegliere, a volte, di conservare il proprio cognome, o di trasmetterlo ai figli. Da un punto di vista giuridico, la preferenza per il cognome paterno è giustificata dalla mancanza di legame fisico tra padre e bambino, per cui l’assegnazione del cognome da parte del padre è vista come una dichiarazione atta a stabilire il legame mancante. Ho avuto l’opportunità di parlare con una professionista italiana che ha da poco sposato un uomo inglese: ha optato per il cognome del marito per sé e per gli eventuali figli. Le motivazioni sottese a questa scelta sono state principalmente due, da una parte essendosi trasferita in Inghilterra questo le dà la sensazione di potersi integrare più facilmente, dall’altra privare il padre della possibilità di dare il cognome ai figli le sembrava un gesto umiliante, una sorta di demansionamento. Molte donne in Gran Bretagna e in Francia lamentano i problemi burocratici in cui incorrono quando decidono di mantenere il proprio cognome o di dare il loro cognome ai figli. Qualunque sia la motivazione sottesa è un fatto che molte donne trovano romantico, naturale e gratificante dare il nome del marito ai propri figli, anche in presenza di una legge che permette di fare diversamente.

Nella prima metà del 1300 a Firenze si sviluppò un’interessante ideologia antimagnatizia che arrivò a varare una legge tesa a cambiare i cognomi altisonanti e aggressivi a quelle famiglie che rendevano l’aria irrespirabile con la loro prepotenza. Il provvedimento purtroppo ebbe vita breve. I prepotenti appena poterono ripresero i vecchi nomi. I diritti non vanno mai dati per scontati una volta ottenuti, ci vuole poco a perderli. I nomi, inoltre, non sono mai asettici, ci parlano del potere e della sua gestione; qualunque scelta siamo chiamati a fare dobbiamo tenerlo sempre presente. Si tratta di decidere se davvero accettiamo l’idea che anche la nostra intimità sia dominata dai rapporti di forza e non vogliamo, invece, costruire per noi opportunità orizzontali.