Le scope del sistema
Il lavoro domestico in Italia
Originalmente uscito su Yanez Magazine.
Viali alberati; strade dissestate, ma pulitissime e larghe; file di case basse in mattoncini e in muratura, interrotte a volte da casermoni grigi; pali della luce e quell’aria rigorosa e severa, tipica dell’est Europa, dovuta un po’ al vuoto, un po’ all’ordine. Imboccando una strada laterale facilmente ti ritrovi in aperta campagna. Prendendo il viottolo giusto, invece, sei sulle sponde incolte di un fiume largo e azzurro che attraversa serpeggiando tutta la città. Mentre parlo al telefono con Natalia, seduta sul divano di casa, con il computer sulle ginocchia, percorro su Google Maps le strade del posto di cui mi parla, Mykolaiv, nel sud dell’Ucraina, non lontano da Odessa. La città che ha lasciato nel 2004, a cinquantatré anni, dopo il fallimento dell’azienda dove lavorava con il marito occupandosi di selezione del personale.
Il cambio di vita di Natalia passa da un incontro fortuito con una connazionale, il consiglio di partire per l’Italia, l’acquisto di un dizionario e un obiettivo specifico: imparare cinquecento parole prima di intraprendere il viaggio. Parte solo a obiettivo raggiunto e arriva a Castellamare di Stabia, un comune popolosissimo e trafficato non lontano da Napoli, dove l’aspettano dei connazionali che la ospitano e l’aiutano a trovare un lavoro. Trovare lavoro come badante non è difficile nemmeno al sud Italia, dove il tasso di disoccupazione è altissimo. Un insieme di fattori rendono difficile agli italiani arrendersi all’eventualità di servirsi di una casa di riposo. Gli anziani lo vivono come un luogo dove perderanno la propria identità, oltre che la propria autonomia; gli adulti di riferimento, invece, ora come un’azione ignobile (hanno abbandonato qualcuno che si fidava di loro), ora come una vergogna che farà parlare tutti i vicini. In meno di una settimana Natalia ottiene il suo primo incarico presso una famiglia di Napoli, si trova bene anche se la signora presso cui lavora è gravemente malata e lei soffre esposta a tutto quel dolore. La signora però muore solo dopo due settimane e Natalia deve fare le valigie. “È stato ingiusto…spesso le famiglie non lo dicono quando i loro familiari sono in fin di vita. Mi è capitato troppo spesso”.
Questa è stata l’unica valutazione generica verso le famiglie espressa da Natalia. Parla del suo lavoro limitandosi ai fatti e non generalizza mai. Da questa donna si potrebbe imparare il discorso non ostile. Se ha qualcosa da dire, parla delle sue emozioni. I giudizi non sa cosa siano. La sua permanenza in Italia è fatta di spostamenti, dislocazioni, famiglie sempre nuove e funerali. Dopo pochi mesi dal sud si sposta al nord, attratta dalle paghe più alte e trova lavoro presso la famiglia di una signora sessantenne che aveva perso l’uso delle gambe. Si trasferisce quindi in una villa grandissima fuori città, dove le mansioni che si trova a svolgere sono le più svariate, ma non le viene messa a disposizione una stanza privata e dorme nel soggiorno. Le chiedo se nel suo contratto di lavoro fosse chiaro che avrebbe dovuto occuparsi delle pulizie, del cibo, di stirare e mettere a posto oltre che della signora in carrozzina“. Quale contratto?” Quella di Natalia però non è una citazione del film “Frankenstein Junior”. Natalia ha girato in lungo e in largo l’Italia e ha lavorato per anni a nero, quindi senza la possibilità di rientrare nel suo paese perché priva di documenti regolari. Mi racconta di una famiglia di Bologna, dove ha lavorato per circa un anno, che le ha promesso di aiutarla con i documenti. La sua paga per assistere il padre anziano che va cambiato anche tre volte al giorno è di seicento euro. Non hanno intenzione di regolarizzarla però, ritengono la tassazione troppo sfavorevole. Vorrebbero invece approfittare di un disegno di legge (DICO) che qualora fosse approvato potrebbe fare al caso loro; Natalia però dovrebbe fingersi convivente del padre. Non accetta, è sposata e non ha intenzione di divorziare o di inscenare situazioni strane. Fa bene perché quel disegno di legge, inoltre, non verrà mai approvato. La richiesta del contratto e dei documenti viene vissuta da molte famiglie come illegittima e Natalia nel raccontarmelo si giustifica. Mi spiega che non voleva usare i documenti per andare in vacanza, ma per poter rivedere il marito, la madre e i suoi tre figli. “Senza i documenti avevo paura, con i documenti mi sono sentita molto più libera, anche se ci sono situazioni in cui è difficile uscire durante le ore libere. Se il ‘nonno’ sta molto male hai paura a lasciarlo da solo”. Natalia racconta convivenze con famiglie bellissime e convivenze difficili. ‘Nonni’ che l’hanno trattata con affetto preoccupandosi addirittura per lei e altri che sono stati duri.
“Il dolore a volte fa diventare cattivi e io ho sempre lavorato con persone che stavano malissimo, per questo non le odio”. Come esperienza totalmente negativa ne racconta una sola. Una famiglia composta anche da una ragazza adolescente che per la maggior parte del suo tempo viveva all’estero. “Mi mancano le parole per dirlo, ma mi sentivo male quando c’era lei in casa, non so perché”. Poi però mi racconta un fatto pratico molto esplicativo “Quando aveva il ciclo lasciava tutto in giro perché a lei faceva schifo e dovevo essere io a raccogliere le sue cose sporche”. Ma nonostante pensi che il suo lavoro spesso sia stato molto umiliante, se tornasse indietro ripartirebbe comunque per l’Italia. “Grazie all’Italia ho aiutato i miei figli. L’Italia mi ha dato tanto e io non me la sento di parlare male del lavoro che ho svolto. Una mia amica, collega e conterranea, dice che siamo dei servi, io penso che in parte è vero…ma è anche vero che l’Italia ha fatto tutto per noi. L’Italia mi darà anche la pensione, il mio paese non ci dà tutte queste cose”. Mentre Natalia parla, io al telefono piango, menomale non mi vede e mi guardo bene dal lasciarglielo capire. Solo dopo più di un’ora che parliamo, inizia a raccontarmi della sua famiglia d’origine, del padre comunista, assassinato per motivi politici quando era preadolescente, dei bambini orfani che vivevano con loro ospitati dai suoi genitori: “Scrivevo poesie e canzoni, disegnavo…volevo fare l’artista e invece niente purtroppo”.
Colf, badanti, babysitter, governanti e non solo. Il numero complessivo, in Italia, sembra sia di un milione e mezzo. Un esercito di persone che si aggira tra le quattro mura di case private, con l’obiettivo di garantire il funzionamento della vita familiare altrui. Spesso è un lavoro di cura, sempre è un lavoro domestico. Donne in prevalenza, nonostante si stia registrando un ingresso massivo di uomini negli ultimi anni; straniere per la maggior parte, anche se negli ultimi dieci anni le italiane sono arrivate ad occupare il dodici per cento della forza lavoro. A loro tutela il Contratto collettivo nazionale sulla disciplina del lavoro domestico, che serve purtroppo a poco sia perché più del sessanta per cento di coloro che lavorano in questo campo non hanno un contratto, sia perché le parti che si siedono al tavolo per stabilire le regole non hanno la stessa forza. Da una parte le associazioni “Fidaldo” e “Domina”, che rappresentano migliaia di famiglie, dall’altra i sindacati a cui si iscrivono pochissimi lavoratori. Fatto sta che gli stipendi previsti nelle tabelle tariffarie restano molto bassi, nonostante siano stati rivisti da poco.
Di fatto partono da poco meno di seicentocinquanta euro per un addetto alle pulizie che vive presso la famiglia con cui lavora e arrivano a un massimo di mille e quattrocento euro per un assistente familiare con formazione specifica che garantisce assistenza notturna. Quando nel 2020 è tornato all’attenzione della politica il tema del salario minimo e si è proposto di fissarlo a nove euro l’ora, Lorenzo Gasparrini, segretario generale di Domina, ha dichiarato infattibile applicare un tale tariffario ai lavoratori domestici a causa dell’impossibilità per molte famiglie di corrispondere una cifra così alta, essendo sempre più spesso costituite da pensionati. Stipendi molto bassi e orario di lavoro molto lungo. Nel caso di assistenti residenti che lavorano a tempo pieno si parla di cinquantaquattro ore settimanali; un numero enorme se si pensa che il decreto legislativo che si occupa di orario di lavoro (n. 66 del 08.04.2003 ) fissa a quaranta ore l’orario normale. Nel lavoro domestico, inoltre, avere un contratto e beneficiare di queste regole è raro essendo un ambito in cui domina il sommerso (lavoro nero). Quando si parla di badanti che vivono con gli assistiti le cinquantaquattro ore settimanali vanno considerate per difetto, spesso queste persone finiscono per essere sempre in servizio, giorno e notte. Nonostante questo, dal rapporto badanti 2021, redatto dall’osservatorio Welforum, sembrerebbe, che le badanti non avvertono la propria condizione come intollerabile, sono invece soddisfatte della propria paga, del proprio lavoro e della propria condizione di vita.
Catia ha cinquantadue anni, due figli ventenni, un matrimonio quasi collassato e un diploma del liceo classico. Il marito è un ingegnere, spesso di stanza in Nigeria. Vivono in un comune dell’hinterland romano, di quelli piuttosto isolati e raggiunti da pochi mezzi pubblici. “Meglio così”, mi dice un ragazzo con cui scambio qualche parola nel bar mentre sono in attesa di Catia, “Senza mezzi pubblici non arriva gentaccia”. In effetti i mezzi funzionano davvero male, Catia mi scrive scusandosi e mi raggiunge dopo un’ora abbondante, stanca, ma con aria battagliera. Si siede di fronte a me e inizia a raccontarsi senza aspettare le mie domande. Da due anni e mezzo il suo matrimonio è finito, per cui la sua convivenza con il marito è puramente funzionale, non ha un altro posto dove dormire e non può permettersi di affittare una casa, né tanto meno di affrontare un divorzio non consensuale. Il suo matrimonio si è sgretolato proprio nell’anno in cui i suoi figli hanno lasciato casa per trasferirsi a Roma e il ristorante, dove aveva investito tutti i suoi risparmi contando su persone poco affidabili, è fallito. Nella sua vita ha sempre lavorato; da giovanissima come segretaria e come contabile, poi in proprio vendendo biancheria intima e pentole nelle case private in pieno stile anni novanta. Dopo la chiusura del ristorante, però, non è riuscita a riprendere le sue attività precedenti, trovandosi in un segmento di mercato completamente stravolto dai social e dal digitale e le uniche offerte che ha ricevuto sono state come badante. “Tutti mi dicono che è un lavoro da nulla… ma è difficilissimo. Solo se una persona ti cade… ci vuole una forza. Il lavoro nobilita l’uomo? Boh..”. Con questa frase smette di parlare, i suoi occhi sono nei miei e hanno dentro tutta la rabbia del mondo. Il suo primo impiego come badante è stato a Sulmona, dove ha lavorato per sei mesi assistendo una donna di novantasei anni, vedova, senza figli, affetta da demenza senile. Il suo datore di lavoro era un nipote della donna che assisteva; lo incontrava solo una volta al mese per ricevere lo stipendio di ottocento euro, rigorosamente a nero. La casa dove lavorava era un bilocale, non aveva quindi una stanza personale e dormiva su una branda posizionata in sala da pranzo “tra santini, statue, rosari, foto di morti, tanti morti, quante notti non ho dormito perché la signora parlava con i morti”. Dopo mesi di convivenza difficile e dopo l’accentuarsi di comportamenti violenti dell’anziana, Catia decide di fare le valigie, tornare dal marito e cercare un impiego migliore. Ne trova uno come baby sitter in un quartiere centrale di Roma, presso una famiglia giovane molto benestante. Non potendosi permettere un auto privata, ogni giorno in spostamenti impiega circa sei ore. Esce di casa alle cinque, con mezz’ora di passeggiata raggiunge la stazione, poi una navetta, un treno e una metropolitana, alle otto del mattino in punto è davanti alla porta della famiglia presso cui lavora. Con amarezza mi confessa che inizialmente è stata molto lusingata dall’aver ottenuto quel lavoro perché la selezione a cui ha partecipato è stata severa e lunga, tanto che il messaggio con cui le hanno comunicato che aveva ottenuto il lavoro lo ha riletto moltissime volte con orgoglio e felicità. Raccontandomi questo Catia si emoziona e mi chiede una pausa, ordiniamo un altro caffè e parliamo di altro. Il discorso lo porta sempre avanti lei tra storie surreali e aneddoti divertenti.
All’improvviso, autonomamente, torna a parlarmi del suo lavoro, questa volta con molta ironia e sarcasmo.”La paga è di mille euro e ho addirittura un contratto. Un contratto part time, a dire il vero. In realtà però lavoro full time.” Sul contratto le sue mansioni sono limitate alla cura del bimbo di undici mesi, ma in realtà fa il bucato, stira, rassetta e pulisce la casa, nutre tre gatti persiani, cambia le loro lettiere e soprattutto cucina. Un menù vegetariano per la signora, carnista per il marito, “neonatale” per il bambino. “Con il bimbo in braccio, rifocillo tutto il giorno con caffè, tè, biscottini i miei datori di lavoro che lavorano chiusi ciascuno in una stanza al telefono o davanti a uno schermo.” Quello però che la stanca davvero non è il numero di compiti spropositati che deve svolgere in casa, ma l’atteggiamento che hanno i datori di lavoro verso di lei. “Sono volubili, alcuni giorni gentili e cordiali, altri dimenticano anche di salutarmi.”. “Senti questa” mi dice Catia, un po’ incerta. Vuole raccontarmi un episodio, ma non mi sembra sicura che io possa capirlo. La coppia presso cui lavora spesso ha ospiti, quasi sempre si tratta di persone molto benestanti e con carriere avviate nell’ambito dello spettacolo. Qualche giorno prima la sua padrona, così la chiama ridendo, aveva un appuntamento in casa con un collega particolarmente pieno di sé. Catia come da accordi chiede all’ospite se desidera qualcosa, ma lui rifiuta poiché a dieta. Quando però torna servendo la datrice di lavoro, lui cambia idea e chiede di poter avere un caffè il prima possibile perché sta per andarsene. Catia non fa una piega e va a prepararglielo, a questo punto lui esclama: “Ma dove l’hai trovata? È tenerissima…la voglio anche io”. Catia mi guarda. Non è convinta che io possa capire che in quella frase ci sia qualcosa che non va. Prima che io possa dire qualunque cosa sentenzia: “E’ un lavoro davvero umiliante, e sono anche due ignoranti”.
Se è indubbio che il lavoro domestico permette a molte persone e soprattutto alle donne dei paesi poveri di cambiare vita, di acquisire autonomia e indipendenza economica, è anche vero che il costo da pagare è alto. Si tratta spesso di donne anziane bisognose a loro volta o più raramente di donne giovani che lasciano i propri figli e le proprie case per badare alle famiglie degli altri. Giuseppe A. Micheli, professore di Demografia all’Università degli Studi di Milano-Bicocca, mette in luce come grazie a questo lavoro tra chi cura e chi è curato si crei un legame come di sangue che garantisce una rete utile soprattutto a chi cura. Aldo Marchetti, invece, docente in Sociologia del Lavoro presso l’Università degli Studi di Brescia, sottolinea come in questo settore il conflitto relazionale aperto o latente sia endemico. Il rapporto di lavoro, infatti, quasi mai si chiude con serenità e chiarezza; entrambe le parti spesso per concluderlo ricorrono a una bugia. L’endemicità del conflitto secondo Marchetti è dovuta proprio all’ambivalenza della relazione e all’asimmetria di potere tra le parti. Se la famiglia, per esempio, da una parte tende a biasimare il caregiver e ad accusarlo di avidità nel momento in cui non mostra un legame con l’assistito, nello stesso tempo non sono rari i casi in cui si instaurano sentimenti di gelosia e di sospetto qualora il rapporto con l’assistito diventi troppo stretto. Non sono rari i genitori che provano gelosia per il legame tra la babysitter e il figlio, o figli che ritengono che i propri genitori siano circuiti dai/dalle badanti (Caso Vattimo).
I sentimenti e le emozioni negative, infatti, non sono appannaggio solo dei lavoratori. Quando un domestico fa una vertenza, presenta delle rimostranze o si rifiuta di svolgere una mansione in più, spesso provoca delusione e sconcerto. Non è raro che il datore di lavoro convinto di aver creato un’atmosfera familiare e accogliente veda il lavoratore come un ingrato. Spesso sente sinceramente di aver dato molto e di non aver ricevuto in cambio abbastanza. Parlando con i datori di lavoro pullulano i racconti di oggetti spariti o rotti, disattenzioni, mancanze di rispetto, pigrizia e indolenza. Senza dubbio, per dirla con il ricercatore Aldo Marchetti, in questo tipo di rapporto l’asimmetria di potere, la differenza di status sociale, il legame emotivo e la vicinanza fisica creano un mix esplosivo che favorisce la nascita di rapporti paternalistici o abusanti.
Amalia la intercetto su Nextdoor, la piattaforma che mette in contatto i vicini di casa. Ha risposto a un annuncio per colf. Le scrivo immediatamente e mi risponde subito, ci sentiamo per telefono e ci incontriamo due volte. Finiamo sempre per parlare di altro. Moldava, giramondo, appassionata di musica e di lingue straniere. Oltre la sua lingua madre parla russo, inglese, italiano, un po’ l’ebraico e un po’ l’arabo. In Moldova lavorava come infermiera e sente di avere una vera vocazione alla cura, che le ha reso anche facile il lavoro di badante. Facile e nello stesso tempo un po’ impossibile da lasciare. Nonostante siano anni che prova a fare altro, non c’è mai riuscita. Amalia non ama parlare della sua vita privata, capisco che la ragione per cui ha lasciato la città natale è stato un matrimonio andato male, una figlia da mantenere, un salario da fame e una grande curiosità verso il mondo. Quando decide di lasciare il suo paese ha venticinque anni e cerca lavoro come infermiera in Israele, trova però occupazione come badante. In Israele rimane per cinque anni, entra nella chiesa avventista e riesce a sentirsi parte della comunità. Dalle famiglie presso cui lavora si sente rispettata e ben voluta. “Non era così per le mie colleghe, molte di loro si sentivano sfruttate. Io no, probabilmente perché parlavo bene l’inglese e mi cimentavo con l’ebraico”. Decide di lasciare Israele nel 2008 perché non riesce a trovare un lavoro diverso e spera che cambiando stato si possano aprire altre possibilità.
“Il lavoro da badante è impegnativo anche fisicamente, inoltre vivere con gli assistiti ti toglie tanto come persona. Inoltre volevo che mia figlia mi raggiungesse e non volevo vivere con lei nella casa dove lavoravo”. Decide così di raggiungere la cugina in Italia, che lavora come colf a casa di un imprenditore italiano molto noto. Amalia ha un problema: non può lavorare di sabato perché è avventista; mentre in Israele questa è una richiesta vissuta come normale, osservando anche gli ebrei il riposo del sabato, in Italia non è così e questo la spaventa. In realtà il problema del sabato si rivela presto essere solo una sua paura, riesce a trovare tranquillamente lavoro nonostante questa esigenza. Ancora una volta, però, il lavoro che trova è quello di badante co-residente. Solo nel 2015 riesce a trovare una famiglia che la paga in maniera adeguata senza l’obbligo di risiedere in famiglia. La retribuzione accordata è di mille e cinquanta euro per occuparsi di due persone non autosufficienti. In questo modo riesce ad affittare una casa e a farsi raggiungere dalla figlia. Amalia pensa che la vita ti tratta come la tratti e non le piace compiangersi. Crede fermamente nella legge di attrazione e spesso mi invia tramite whatsapp video che promuovono questa idea.
Quello che non apprezza delle famiglie presso cui ha lavorato e che vede un po’ come un leitmotiv è la mancanza di chiarezza. Spesso ci si trova a svolgere mansioni non previste, a occuparsi di più persone o addirittura della gestione della vita pratica di un’intera famiglia. Ha ricevuto addirittura la richiesta di far fare fisioterapia a un’anziana signora, richiesta che ha rifiutato perdendo il lavoro, poiché, a detta dei datori di lavoro, le badanti che l’avevano preceduta avevano sempre accettato senza riserve. “Spesso non c’è chiarezza sulla patologia degli assistiti e i problemi mentali vengono negati, minimizzati o sottaciuti. Guarda, la difficoltà vera è stare nelle dinamiche di queste famiglie ricche, dove tutti si odiano. Fratelli che si detestano, spesso per l’eredità. E poi di questa eredità cosa se ne fanno? Sono tutti senza figli, tutti non sposati, siete tutti malatissimi”. Le parole di Amalia dette con serenità davanti a un cappuccino caldo nel dehor di un bar rileccato mi scuotono e mi risuonano. Con i miei amici non si fa altro che parlare di malattie, di figli che non arrivano o che arrivano dopo spese folli, di tristezze e di depressione.
La figlia di Amalia ha ventidue anni e fa l’estetista, decido di andare a fare una chiacchierata anche con lei e prenoto una sessione per mettere a posto le sopracciglia. Mi accoglie sorridente, ma non troppo, vestita all’americana, cappellino con la visiera e short. Avverto curiosità e risentimento. In testa mia penso: “Eccole..le seconde generazioni”. Non è un’osservazione così azzeccata, ma mi tormenta il cervello fin quando non esco da quella casa. L’aria è asfittica. Vive e lavora in un palazzone al quattordicesimo piano, è agosto, trentanove gradi, le finestre sono tutte chiuse, se le dovesse aprire la casa si arroventerebbe ulteriormente. Mi chiede come mai con quel caldo sono in città, nessun italiano resta in città in agosto. A me le città in agosto piacciono moltissimo, ma non riesco a rispondere così e dico una mezza verità. “Amo le piante, ne ho molte e sto cercando qualcuno che se ne prenda cura”. “A sì? invece io ho ricevuto un’orchidea in regalo e l’ho fatta seccare perché non mi piaceva”. La mascherina, il caldo soffocante, l’atmosfera non rilassata mi procurano un capogiro, inizio ad aver paura di stramazzare sul pavimento. Tutta la mia concentrazione è sul restare lucida.
Dalia prende la pinzetta e del colore, mi sistema su un trespolo e mi spiega che le mie sopracciglia sono troppo chiare e poco spesse. Deve perciò colorarle e “crearle” da capo. Le dico di sì, cercando di creare un ambiente cordiale. Chiedo un bicchiere d’acqua perché mi sento soffocare. Me lo porta subito. Mi chiede del mio lavoro, vuole sapere perché sono interessata al lavoro domestico. “Perché l’ho fatto, per un breve periodo della mia vita, ma l’ho fatto” rispondo, riuscendo a dire per la prima volta la verità anche a me stessa. “Voi italiani non potete fare questi lavori, non ci resistete”. “Qui no, non riusciamo a farli. Altrove sì però. Tu potresti fare la badante in Moldova?” “No, si guadagna troppo poco.” “Esatto”. Non riesco a chiederle nulla, mi ammutolisce l’anima e lascio che lei mi dica quello che vuole. Mi racconta di un ricovero breve in una clinica psichiatrica, del rapporto con i nonni, della sofferenza per l’assenza della madre. “L’ ho odiata, l’ho capita solo dopo molti anni”. Dalia poi mi parla dei suoi progetti futuri. Ha appena aperto un negozio online su tiktok dove promuove il benessere. Quando esco di lì sono stremata, nell’ascensore che è una cabina di alluminio cerco subito il suo profilo sui social, per non dimenticarne il nickname. Vedo che ha una valanga di follower. È ambientalista e animalista. Ripenso alla sua sparata sull’orchidea che mi è quasi costata uno svenimento. Poi apro l’app della fotocamera per vedere le mie sopracciglia. Sono talmente spesse che per un attimo mi sembra di rivedere mio padre. Mi dico fra me e me sorridendo “Che razza di provocatrice”.
“Non ci sono domestici a casa di Garibaldi” afferma il suo medico personale, Timoteo Riboli, in un carteggio privato. L’entusiasmo con cui sottolinea la circostanza, secondo Raffaella Sarti, potrebbe essere dovuto al fatto che il clima democratico di fine Ottocento era avvertito in forte antitesi con la presenza dei domestici. “Una delle nostre credenze religiose e politiche è l’abolizione della domesticità” asseriva Mazzini nel 1835. L’industrializzazione aveva spostato i lavoratori dalle case all’industria con grande disappunto delle famiglie abbienti che erano rimaste sprovviste del personale. Questa mancanza di offerta aveva creato le circostanze favorevoli al rinnovamento del settore. Il Novecento si aprì con scioperi e proteste nei quali le richieste non vertevano intorno al salario ma alla dignità. Le vicende storiche (tra cui il fascismo) comunque presto assopirono ogni problematicità sollevata e tutto tornò lentamente come prima. La questione della dignità quando si parla di lavoro domestico è rimasta però aperta.
Sembra quasi che ci sia qualcosa di insito nella stessa natura di questo lavoro che possa minare la dignità dei lavoratori. Per diversi studiosi il problema è dato dalla vicinanza tra datore di lavoro e lavoratore spesso eccessiva. Esporre la propria intimità, espletare i propri bisogni, mostrare la propria quotidianità fatta di imperfezioni e di litigi a un estraneo senza provare vergogna è difficile. Diventa sopportabile solo se l’altro viene vissuto come una non persona. La disumanizzazione, quindi, spesso è inevitabile. Secondo G. Ehrenreich, inoltre, il lavoro di cura domestico non può essere equiparato a nessun altro servizio offerto sul mercato perché marchiato storicamente come lavoro servile. Se non ci fosse questa sorta di disumanizzazione e questo marchio di servaggio probabilmente nessun cittadino potrebbe ritenere accettabili le tariffe orarie che caratterizzano questi lavori. Retribuire la baby sitter del proprio figlio fra i settecento e i mille euro, guadagnandone duemila per lo stesso numero di ore sarebbe impensabile. Nessun genitore pensa che il benessere psicofisico del proprio figlio valga poco, ma sono poche le persone che ritengono quel lavoro più difficile del proprio. Nello stesso modo fare anche solo compagnia a un genitore o a un anziano affetto da demenza spesso è avvertito come insopportabile e fonte di grande stress, ma non per questo si ritiene che il badante sia bravo a farlo o meriti uno stipendio alto per questo.
Nonostante le molte caratteristiche negative della domesticità, nulla finora è riuscito a eliminarla, nemmeno la Rivoluzione d’ottobre e questo probabilmente per un motivo molto semplice: della domesticità se ne ha bisogno. Ne hanno bisogno i datori di lavoro, ne hanno bisogno i lavoratori. In definitiva si tratta di lavori essenziali, faticosissimi ma che rappresentano per alcune persone una vocazione e per molte altre l’unico modo per emanciparsi. Diverse associazioni fortunatamente stanno cercando di definire delle linee guida per rinnovare il settore una volta per tutte, garantendo a chi lavora in questa fetta di mercato condizioni di lavoro migliori. La direzione verso cui ci si sta orientando vanno dalla maggior qualificazione dei lavoratori attraverso corsi professionalizzanti all’affido del rapporto di lavoro a cooperative; per cui il datore di lavoro smette di essere la famiglia e diviene la cooperativa stessa. Questo garantirebbe un meccanismo di turnazione in cui più persone seguono una stessa famiglia e un solo lavoratore segue più famiglie.
Fondamentale sarebbe anche una ripartizione più equa di questi compiti fra tutti gli individui di una società. Una donna argentina, che ha lavorato per dieci anni come assistente familiare, mi ha detto descrivendo i compiti di cui si occupava: “In pratica facevo la donna di casa”. I lavori di cura, come i lavori domestici, sono ancora avvertiti appannaggio delle donne. I bambini, i genitori anziani, la pulizia vanno ancora oggi a gravare quasi del tutto su di loro. Probabilmente se queste mansioni venissero distribuite tra uomini e donne nello stesso modo all’interno delle famiglie, non ci sarebbe bisogno di un uso abusivo del personale domestico. Il problema dei lavori di cura domestici interseca come pochi altri le problematiche di classe sociale, provenienza territoriale e genere. In questo momento storico in cui le disuguaglianze stanno tornando a minare la stabilità sociale e la convivenza pacifica, sarebbe importante ripartire proprio da qui: solo abbattendo le forti sperequazioni tra gli stipendi si può garantire uguale dignità al lavoro.